Eccoci giunti all’ultima domenica di questo anno liturgico: con settimana prossima inizia l’anno nuovo per la Chiesa.
Si finisce con la festa di Cristo Re dell’universo, una sorta di “ultimo dell’anno” liturgico.
Il testo del vangelo è la parabola cosiddetta del “giudizio finale”, che – come abbiamo visto settimana scorsa – completa la serie delle tre parabole che Matteo inserisce proprio prima di iniziare a raccontare la passione di Gesù.
Tutto ci parla di “fine”…
Eppure, come scrivevamo a proposito della parabola delle dieci ragazze e quella dei talenti, ciò su cui questi brani vogliono che ci concentriamo non è la fine… o l’inizio… ma lo spazio di mezzo, tra il mio oggi e la fine.
L’escamotage letterario di queste storie è infatti quello di costruire una cornice narrativa che presenti un’attesa (parabola delle ragazze), un’assenza (parabola dei talenti), un fittizio sguardo retrospettivo (parabola di oggi) su un tempo che diventa l’oggetto di interesse.
La domanda di queste parabole riguarda infatti il come vivere quel tempo di attesa, quel tempo di assenza.
Da questo punto di vista, la parabola di oggi crea un artificio ancora più complicato, cioè immagina un giudizio finale su quel tempo, su quello “spazio di mezzo”, come se esso fosse stato già vissuto.
Quel tempo però, quello “spazio di mezzo” (tra il nostro oggi e l’incontro col Signore), in realtà non è già stato vissuto, ciascuno di noi lo sta ancora vivendo, pertanto il giudizio immaginato dalla storia serve per orientarlo, per farci decidere come viverlo.
Si tratta dunque di uno stratagemma letterario per farci riflettere su come stiamo vivendo e su come potremmo vivere il tempo della nostra vita.
Il giudizio fittizio, in particolare, punta l’attenzione sul modo in cui viviamo (e sul modo in cui potremmo vivere) le relazioni con i «fratelli più piccoli», identificati con gli affamati, gli assetati, gli stranieri, i nudi, i malati, i carcerati.
Questo modo in cui viviamo le relazioni con loro è ciò che fa la differenza, è ciò su cui dobbiamo interrogarci.
Sono in particolare tre gli aspetti che vorrei mettere in luce di queste relazioni:
- Le categorie elencate non sono esaustive, ma sono degli esempi di cosa il vangelo intenda con «fratelli più piccoli». Non sono messe lì per limitare i confini delle nostre relazioni, come se altre (nuove?) categorie di «fratelli più piccoli» non rientrassero nel discorso e andassero dunque escluse. Ciò che il testo vuole presentare non è un elenco completo, ma un elenco esemplificativo per farci capire che ciò che conta (ciò che fa la differenza) sono le nostre relazioni con tutti i «fratelli più piccoli». Le stesse categorie elencate poi non vanno prese solo in senso “materiale”, ma in senso estensivo: quando parla di “carcerati” per esempio, non fa riferimento solo ai detenuti nelle carceri, ma a chiunque si trovi in una prigione, foss’anche la prigione dei suoi sensi di colpa o la prigione della sua ignoranza. Capite dunque che la questione non è tanto assolvere a qualche dovere di ospitalità o a qualche moto di buon cuore, ma rivedere tutta la logica del nostro porci nei confronti dei «fratelli più piccoli».
- Detto questo, gli esempi concreti indicati non possono essere semplicemente by-passati: non è che, poiché il senso di quelle categorie è estensivo, posso prescindere da un impegno concreto con persone concrete. Il rischio che vedo infatti è quello di armarsi di buoni sentimenti, di proclamare logiche di inclusione e solidarietà, ma poi non spendersi mai fattivamente per qualche persona in carne e ossa: non dare mai davvero da mangiare o da bere a qualcuno, non vestire o ospitare mai qualche essere umano vero, e così via… No! La dinamica proposta per abitare lo “spazio di mezzo”, il tempo della nostra vita, è una dinamica molto tangibile. È importante dunque tradurre la logica della fraternità in una operatività fattiva, almeno con qualche “piccolo” reale, che abbia un nome, una storia, una faccia…
- La parabola attua infine un’identificazione tra il Signore e questi «fratelli più piccoli». Non per dire che in ogni “piccolo” io devo vedere Gesù. Almeno, a me questa prospettiva continua a non convincere, perché l’altro io lo amo perché è lui, nella sua individualità e unicità irripetibile, non perché, “saltando” la sua specificità, lo identifico con Cristo. Credo piuttosto che il senso di quell’identificazione sia una critica forte a quelle posizioni religiose che pretendono di amare Dio ma non il prossimo. Certe correnti spiritualistiche, pur magari senza affermarlo apertamente, tendono infatti a escludere dal rapporto io-Dio il rapporto io-altri (e addirittura Dio-altri). L’identificazione del Signore con i “piccoli” invece impedisce questa deriva: “Vuoi amare Dio? Ama il prossimo tuo”. Non a caso Giovanni, nella sua prima lettera, scrive: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20). E Paolo, nella lettera ai Romani, così sintetizza i comandamenti: «qualsiasi altro comandamento si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso».