Le tre parabole contenute nel capitolo 25 di Matteo (quella delle dieci ragazze, che abbiamo letto domenica scorsa, quella di oggi, sui talenti, e quella cosiddetta del “giudizio finale”, che recita «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere…») sono gli ultimi testi prima del racconto della passione.
L’evangelista le colloca pertanto alla fine della vita di Gesù, in quei giorni che precedono il suo arresto e poi la sua condanna a morte.
In effetti, il tono di queste parabole è “finale”, vi si respira un’atmosfera di congedo, di separazione, di abbandono e solitudine, di attesa, di ritorno, di re-incontro.
Nella parabola odierna, per esempio, si parla di un uomo che parte per un viaggio, affida i suoi beni ai servi e – solo «dopo molto tempo» – li incontra di nuovo.
Nella parabola delle dieci ragazze, la vicenda è costruita attorno ad un’assenza (lo sposo) e dunque ad un periodo di solitudine e attesa per le vergini.
In quella del “giudizio finale”, la scena è posta al futuro («Quando il Figlio dell’uomo verrà…»), cioè è immaginata a partire dall’oggi del narratore: c’è dunque una distanza tra il presente (in cui viene pensata la scena finale) e il futuro (in cui si realizzerà); una distanza abitata da uno “spazio di mezzo” fatto di lontananza e di separazione dal Figlio dell’uomo, che appunto si incontrerà di nuovo… alla fine.
È proprio su quello “spazio di mezzo” che tutte e tre le storie vogliono che poniamo la nostra attenzione: lo “spazio di mezzo” delle ragazze che aspettano lo sposo, lo “spazio di mezzo” dei servi cui sono affidati i beni del signore, che è in viaggio; lo “spazio di mezzo” che separa l’oggi dal momento del “giudizio finale”.
Lo “spazio di mezzo” per noi, fuor di metafora, è il tempo della storia, il tempo della nostra storia, il tempo della nostra vita, il tempo che c’è tra oggi e il momento di incontrarsi con il Signore.
L’attenzione dunque non è posta sul momento dell’incontro (futuro), né sul passato, ma sul tempo che va da oggi alla nostra morte (o al suo ritorno).
La parabola delle dieci ragazze sottolineava l’importanza di vivere questo tempo con saggezza, con tutto ciò che essa significava e di cui abbiamo parlato domenica scorsa.
La parabola del “giudizio finale” sottolinea l’importanza di vivere questo tempo dando da mangiare a chi ha fame, da bere a chi ha sete, accogliendo chi è straniero, vestendo chi è nudo, visitando chi è malato, andando a trovare chi è in carcere…
La parabola di oggi, la parabola dei talenti, sottolinea l’importanza di vivere questo tempo di mezzo con fiducia e non con paura.
Il tempo della storia, il tempo della nostra storia, il tempo della nostra vita è nelle nostre mani: il Signore ce lo ha lasciato. Dunque, lui si è fidato di noi.
È vero che pensare di avere tra le mani questi “beni” che Lui ci ha lasciato / affidato (noi stessi, gli altri, i nostri piccoli mondi, il mondo in grande), può farci tremare le ginocchia: la responsabilità spaventa. Eppure lui si è fidato.
A noi la scelta se – di fronte a questa impresa – comportarci da “uomini” (cioè provarci, con tutto noi stessi) o da “mezzi uomini” (cioè rinunciare, declinando l’invito); a noi la scelta se comportarci da coraggiosi o da codardi; da fiduciosi o da impauriti, sapendo che la posta in gioco non è l’aldilà, ma l’aldiqua… perché l’impresa non è conquistare il paradiso, ma farsi carico dei beni che Lui ci ha affidato: la storia, il mondo… la nostra storia, il nostro mondo, le storie degli altri, i loro mondi.