Come abbiamo constatato domenica scorsa, Gesù è ormai giunto a Gerusalemme.
Manca poco al suo arresto.
Il brano di vangelo di questa settimana è ambientato al tempio, dove Gesù rivolge un primo insegnamento alla folla e uno successivo ai suoi discepoli.
Entrambi riguardano il rapporto con la religione.
Nel primo caso, Gesù dice: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere».
In queste poche righe è tratteggiato un atteggiamento che – credo – sia conosciuto da molti/e di noi. Lo abbiamo visto negli altri e, forse, a volte lo abbiamo, assunto a nostra volta.
Si tratta di un rapporto strumentale con la religione, che viene usata (nelle sue varie manifestazioni e forme) per mettere in mostra se stessi, per farsi grandi, per avere potere e denaro.
Nel secondo insegnamento, invece, Gesù – seduto di fronte al tesoro del tempio e notato come molte persone vi gettassero monete e i ricchi ve ne gettassero molte – mette in evidenza il comportamento di una vedova povera che aveva gettato due monetine: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
In questo episodio viene nuovamente presentato l’atteggiamento già stigmatizzato in precedenza a proposito degli scribi (i ricchi che mettono nel tesoro del tempio molte monete lo fanno per farsi notare, ottenere considerazione, mettere in soggezione…), ma viene presentato anche il suo contraltare (la vedova povera che – mettendo solo due monete – fa una figuraccia rispetto agli altri, ma – in realtà – sta dando tutta se stessa).
La vedova povera diventa, allora, il paradigma dell’autentico atteggiamento religioso: quello della fiducia in un Dio con cui si entra in relazione non in maniera strumentale (finché serve, tenendo sempre ben in vista un’eventuale uscita di sicurezza per quando non è più funzionale), ma dando completamente se stessi/e, cioè giocando la propria vita, nella sua totalità, con Lui.
Oggi, per denominare questo secondo modo di vivere la religione – distinguendolo dal primo – non si utilizza più la parola “religione” (che è diventata, appunto, sinonimo di un rapporto inautentico e strumentale con Dio e con il sacro), ma “fede”.
La lotta spirituale assume pertanto i tratti della lotta tra “religione” e “fede”.
I due atteggiamenti, infatti, tranne in rarissime eccezioni non sono mai presenti nelle persone (e anche in noi) nella loro forma “pura”: sono mescolati, spuri; a volte prevale uno, a volte l’altro…
Avere però presente che questa è la battaglia che si combatte dentro di noi, avere presente (e saper nominare e identificare) quali sono le due polarità in campo, può fornirci consapevolezza.