Il vangelo di questa settimana, con la sua parabola, rispecchia sostanzialmente i temi di domenica scorsa, con la dura critica nei confronti dell’apparato religioso ebraico «gli invitati alle nozze» che «non volevano venire» e l’annuncio che sarebbero stati sostituiti: «andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze».
C’è però un elemento in più, che è anche quello che attira immediatamente l’attenzione: «Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».
Anche tra i nuovi invitati, tra i commensali, c’è qualcuno che non è “eletto”.
Ciò che lo contraddistingue è il non avere «l’abito nuziale».
È su questo elemento di novità rispetto a settimana scorsa che appunteremo la nostra attenzione.
Innanzitutto, però, è necessaria una premessa: il testo che stiamo leggendo è una parabola, cioè una storia fittizia (non qualcosa di realmente accaduto: Gesù non sta descrivendo un reale banchetto di nozze in cui sono successe queste cose). Gesù, piuttosto, sta inventando una situazione immaginaria, per far capire qualcosa ai suoi interlocutori. E per farlo, utilizza delle immagini: quella del banchetto di nozze, quella dell’abito nuziale, quella del re…
Non bisogna immediatamente (come ci verrebbe istintivo) fare delle associazioni con la realtà, per cui il re sarebbe Dio, il banchetto di nozze il paradiso e l’abito nuziale (come a volte nel passato è stato detto) il battesimo.
I piani della parabola e della realtà non vanno mischiati.
Prima di tutto bisogna comprendere la parabola e poi provare a capirne il messaggio.
Nella parabola, come anticipato, il problema è che uno degli invitati “nuovi” (cioè di quelli presi ai crocicchi delle strade, ecc…) non ha l’abito nuziale: cioè, non è vestito adeguatamente, non ha i vestiti adatti per l’occasione, non ha colto di cosa si tratta, non ha capito o non si è con-formato (non ha preso la “forma” giusta) per partecipare ad una festa.
Questo è quello che ci rimanda la parabola.
Proviamo ora a uscire dalla storia e a comprendere cosa Gesù voleva che capissimo, raccontandoci questa storia.
Il punto mi pare la comprensione di cosa c’è in gioco. La proposta di vita che Gesù è venuto a fare all’umanità (quella che normalmente lui chiama “Regno di Dio”) è una festa.
I primi invitati non hanno voluto parteciparvi: non hanno voluto prendere parte a una festa, forse pensando che la fede fosse qualcosa di non assimilabile a una festa, appunto, ma che anzi fosse qualcosa di molto più serioso, rigoroso, religioso.
Quello “buttato fuori” alla fine è invece uno che ha accettato di parteciparvi senza capire però che si trattava di una festa: forse aveva gli abiti da lavoro, perché pensava si trattasse di qualcosa di faticoso, di esigente, di retributivo (mi farà mangiare, se farò qualcosa per lui).
Da qui l’ira del re, che non va pensata come qualcosa di reale (Dio ci butterà fuori se non avremo l’“abito” giusto), ma come il modo che Gesù trova per mostrare la sua frustrazione. Cioè per dire (ormai alla fine della sua vita) quanto è stato frustrante portare una buona notizia, annunciare una festa, dire a tutti che Dio ci guarda con benevolenza e vorrebbe solo che tutti fossimo felici e vivessimo tra di noi come fratelli, in un mondo (come dice Gino Strada) dove chi ha bisogno viene aiutato, e avere come risposta dai destinatari di questo annuncio una non considerazione, una non comprensione, un rifiuto.
Gli umani non hanno considerato degno di attenzione l’annuncio di Gesù, non l’hanno compreso o l’hanno rifiutato: non hanno voluto far festa, preferendo al Regno di Dio, la sua contraffazione, quella per cui dio rimane colui che non ci guarda con benevolenza, ma anzi con la puntigliosa registrazione di ogni nostra pecca, pronto a punirci se non siamo come lui ci vuole; un dio non interessato alla nostra felicità, ma alla nostra obbedienza e sottomissione, mediata (magari) dai suoi ministri, pronti a lucrare sulle nostre paure e a favorire quei meccanismi che confermano il loro potere.
Potremmo dire che questa è la parabola in cui Gesù mette in scena la sua frustrazione, non tanto per auto-commiserarsi, ma per provocarci: è come se ci lanciasse un appello. Noi da che parte stiamo?