Il vangelo di questa domenica ci propone il secondo annuncio della passione di Gesù.
Non andrà molto meglio del primo (che abbiamo visto la settimana scorsa).
In questo caso i discepoli e le discepole, dopo aver sentito Gesù «che diceva loro: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”», «non capivano […] e avevano timore di interrogarlo».
Provando a immaginare la scena, potremmo vedere Gesù che precede il gruppo, il quale tuttavia si attarda, parlottando. È come se lasciasse una distanza perché il maestro non senta i discorsi che vengono fatti.
Ma poi – di fronte alla domanda diretta di Gesù («Di che cosa stavate discutendo per la strada?»), l’argomento emerge: «Per la strada avevano discusso tra loro chi fosse più grande».
Non deve scandalizzarci questo atteggiamento dei discepoli, poiché si tratta di una postura tipicamente umana: misurarsi continuamente con gli altri per “essere di più”, “valere di più”, “contrare di più” … degli altri e delle altre.
Questo perché?
Perché l’“essere di più”, il “valere di più”, il “contare di più” sono la via per avere più potere, essere più stimati, essere più amati.
Questa tendenza a essere i primi, le prime almeno per qualcuno/a, per una piccola o grande cerchia è un innato modo di funzionare che – senza spesso averne coscienza – applichiamo in maniera istintiva.
È per questo che la proposta di Gesù crea così tanto disagio, perché ci chiede di rompere con questi automatismi, ragionare sul nostro funzionamento e convertirlo (cioè reindirizzarlo) su un’altra via.
Una via che – di primo acchito – non è per niente allettante: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
Gesù sta dicendo che la logica del Regno, la logica del mondo come lui lo sogna, è fondata su criteri diversi da quelli che istintivamente ci nascono dentro: la vita non è una gara, una competizione a chi è “di più”, a chi è “più grande”, ma è un impasto di relazioni in cui il “di più” riguarda l’amore che si dà.
Questo, però, implica uno spostarsi dal centro dell’attenzione (che non vuol dire distogliere totalmente l’attenzione da sé, in un’ottica sacrificale).
Spostarsi dal centro dell’attenzione vuol dire non avere bisogno di essere “di più”, di essere “al centro”, per sapersi amati/e.
Spostarsi dal centro vuol dire essere così certi di essere amati/e che – appunto – non c’è bisogno di occupare la scena per ricordare agli altri, alle altre, a Dio che esistiamo e ci devono amare.
Ma, spostarsi dal centro vuol dire anche lasciar spazio perché “al centro” – delle nostre attenzioni e del nostro amore – ci sia altro, gli altri, le altre, l’Altro.
E questa è una logica che ha una sua durezza intrinseca: perché chi ama è feribile, si mostra feribile e … alla fine dei conti … è ferito/a.
Ecco perché c’è questa fatica immensa ad accogliere (anche solo a sentir pronunciare) la proposta che Gesù sviscera nella seconda parte del vangelo di Marco: «Non è la consapevolezza tragica della precarietà della vita umana, la ricerca spesso delusa di un senso della vita, la difficoltà a gestire le grandi scelte etiche, che sono di ostacolo al Signore, ma la repulsione verso il nucleo stesso di tutta l’avventura umana di Cristo: l’inscindibile legame tra la sofferenza e la salvezza, la morte e la risurrezione, la debolezza e la potenza, [tra amore e sofferenza] in lui come Messia – e quindi nell’uomo e nella sua storia» [Giuliano Bettati].