Da alcune settimane stiamo seguendo gli ultimi atti della vita pubblica di Gesù, quando – ormai a Gerusalemme – si consuma il contrasto finale (e fatale) con le autorità religiose ebraiche e con i farisei.
Proprio questi ultimi sono i protagonisti del vangelo di domenica.
Le loro intenzioni sono chiare: «Cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi».
La questione su cui vogliono portalo per metterlo in scacco è quella del rapporto con il potere politico, in particolare col potere dei Romani, coloro che erano malvisti dalla popolazione ebraica a causa della loro dominazione sulla Palestina.
Il punto è, dunque, «è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».
È giusto, cioè, pagare le tasse all’invasore (pagano)? O bisognerebbe, in qualche modo, fare un’opposizione politica a questi occupanti?
In Palestina, tra gli Ebrei, all’epoca vi erano posizioni differenti: la classe dirigente ebraica, l’élite benestante, formata essenzialmente dai Sadducei, aveva ritenuto più opportuno scendere a patti con i Romani, i quali permettevano ai Giudei di praticare la loro religione e di giudicare i casi di inadempienza religiosa (tranne quando veniva comminata una condanna a morte: in quel caso serviva il permesso romano per eseguire la sentenza), riservando a sé la riscossione delle tasse (che tuttavia venivano raccolte per mano dei pubblicani, Ebrei che si prestavano a lavorare per i Romani), il giudizio nei processi penali e civili, la gestione dell’ordine pubblico tramite l’esercito.
Gli Zeloti, invece, erano quel gruppo di Ebrei che ritenevano si dovesse reagire con la forza all’oppressore. Essi agivano nell’ombra, organizzando attacchi improvvisi alle guarnigioni romane.
Il resto della popolazione viveva nel malcontento e/o nella rassegnata sottomissione.
La domanda che viene posta a Gesù è, pertanto, assai problematica: gli si vuole far dire se sta dalla parte di chi è connivente con gli oppressori o se è un sostenitore dei ribelli.
Nel primo caso, il rabbi di Nazareth sarebbe passato per un nemico del popolo oppresso, nel secondo sarebbe stato identificato come un violento (o perlomeno come un sostenitore della linea sanguinaria).
Gesù – come spesso gli abbiamo visto fare – si toglie tuttavia dall’angolo in cui i suoi detrattori pensano di averlo rinchiuso: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
La sua risposta non è una presa di posizione in un senso o nell’altro, ma è un’indicazione orientativa generale.
Ciò implica almeno due conseguenze:
1- La proposta di Gesù non è una proposta politica, ma riguarda il modo di essere che ciascuno/a sceglie di fare proprio. Di conseguenza, si può vivere il vangelo qualsiasi sia la situazione politica in cui ci si ritrova.
2- Nei casi concreti in cui la situazione politica impone un contrasto con la propria scelta evangelica, la responsabilità di discernere il da farsi è demandata alla libertà della singola persona.
Quest’ultimo punto credo sia di fondamentale importanza anche per noi.
Il vangelo non è un libro di risposte pronte per ogni situazione che ci troviamo a vivere. La proposta di Gesù delinea un modo nuovo di pensare chi è Dio, chi sono io e quali possono essere le mie relazioni con gli altri / le altre, il mondo. Sta poi a ciascuno/a incarnare questa nuova visione nella propria storia concreta.
I cristiani, le cristiane non sono meri/e esecutori/esecutrici di diktat dottrinali o morali: sono piuttosto persone chiamate ad assumersi la responsabilità di scrivere storie (personali e comunitarie) evangeliche, ciascuno/a con la propria originalità e peculiarità.
Dando orizzonti di senso e non precetti, Gesù ha dimostrato molta più fiducia nei suoi discepoli e nelle sue discepole di quanto – successivamente – abbia fatto la Chiesa.
La situazione attuale del cristianesimo in Europa potrebbe, però, essere l’occasione per ri-assumere con serietà tale responsabilità.