Anche il vangelo di questa domenica è tratto dal capitolo 18 del vangelo di Matteo, che – come ormai sappiamo – contiene il cosiddetto “discorso sulla Chiesa”, cioè quell’insieme di parole accomunate dall’essere riferite alla comunità.
Quest’oggi la tematica su cui verte il testo è quella del perdono.
L’evangelista costruisce la narrazione, facendo pronunciare a Pietro la domanda che dà il “la” a Gesù: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
La risposta è molto nota («Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette», cioè sempre) e si prolunga in una parabola, quella che viene denominata “del servo spietato”.
La trama è conosciuta: il debito gigantesco di un servo viene condonato dal re, che si impietosisce per le sue suppliche. Lo stesso servo, tuttavia, per un debito infinitamente più modesto, si accanisce su un suo debitore e – a differenza di quanto il sovrano aveva fatto con lui – non si impietosisce per le suppliche e fa gettare in carcere chi gli doveva la piccola somma.
Questo è il cuore della parabola ed è su questo che dobbiamo ragionare, non su quanto segue, che, però (chissà perché?) ci attira molto di più.
Il finale della storia, infatti, narra della fine che il re fa fare al servo a cui aveva condonato il debito e che non aveva a sua volta perdonato il suo debitore: «Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Questa parte della storia attira immediatamente la nostra attenzione, tanto da farci scordare il cuore del discorso, perché risveglia in noi l’atavica paura di dio, mai fino in fondo convertita.
Dico solo una cosa a mo’ di premessa: Gesù è venuto a liberarci dalla paura di dio; anzi, ci ha rivelato che il dio di cui abbiamo paura non è Dio; il Dio che lui vuole farci conoscere porta una buona notizia (non cattive notizie), propone una relazione d’amore (non di minaccia), promette il Regno (non punizioni).
La parte di noi che continua ad avere paura di dio è quella da convertire!
Detto questo, se della parabola ci ha attirato subito il finale (perché ci spaventa e ci porta a chiederci: “Finirò anch’io in mano agli aguzzini?”, che tradotto nei termini delle nostre nonne era “Finirò anch’io all’inferno?” e nel linguaggio di oggi è “Finirò anch’io per non piacere a Dio?”), vuol dire che dobbiamo ancora convertirci al Dio di Gesù.
Per il quale, il centro del discorso è un altro: si costruisce il Regno, quando un/una perdonato/a si fa contagiare dalla logica del perdono.
Con una precisazione: si può perdonare solo il male fatto a noi. Non il male fatto a un altro / a un’altra. Io non posso perdonarti il male che hai fatto (per esempio) a mia mamma, posso perdonarti il male che mi hai fatto, facendo il male a mia mamma, o – appunto – posso perdonare il male che hai fatto a me.
E “perdonare” non è questione da niente. Richiede un grande lavoro su se stessi.
Ma, secondo Gesù, è un “lavoro” da fare, se si vuole entrare nella logica del Regno.
Bisogna capire se è ciò che vogliamo… o se preferiamo solo dirci cristiani/e a parole.
1 commento
Grazie Chiara.