Il brano di vangelo di questa domenica ci presenta una delle “fuoriuscite” di Gesù dalla Palestina.
Nel capitolo 7 di Marco, infatti, dopo la polemica con i farisei, Gesù va prima nella regione di Tiro e Sidone, dove incontra la donna siro-fenicia (uno degli incontri più interessanti della sua vita, perché quella donna riuscirà a fargli cambiare idea, cosa che non capita altre volte nel vangelo), e poi «di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone […] in pieno territorio della Decàpoli».
Siamo, dunque, in terra straniera e Gesù fa un altro incontro particolare: «Gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano».
La condizione di questa persona è segnata in maniera duplice perché è sia sordo sia muto.
Gesù acconsente a prendersene cura e «portandolo in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua».
Sono tre gesti molto significativi.
Il primo è quello di portarlo in disparte: il clamore della folla – che glielo aveva portato (e di questo bisogna darle atto) – rischia però di creare una situazione da “fenomeno da baraccone”, nella quale l’importanza della persona che si ha davanti (la sua unicità, i suoi sentimenti, le sue paure…) scema di fronte alla sensazionalità del prodigio atteso.
In disparte, invece, si può custodire la dignità di una persona, si può instaurare un rapporto a tu per tu, in cui ci si può guardare negli occhi.
Il secondo e il terzo gesto consistono invece nel mettere le dita nelle orecchie e nel toccare la lingua altrui con la propria saliva. Sono delle azioni che, forse, hanno qualche eco delle pratiche taumaturgiche del tempo. Indubbiamente sono molto invasivi della sfera personale, anche se l’orizzonte di senso di allora è diverso da quello attuale.
Sta di fatto che ci sono gesti che vengono fatti sui corpi che, quando sono descritti nella loro mera meccanica, possono suscitare un istintivo rigetto; ma che se, invece, vengono collocati nel contesto di uno sguardo (e di uno slancio) amorevole verso l’altra persona, si caricano di tenerezza.
Ai gesti seguono poi le parole: «Guardando verso il cielo, [Gesù] emise un sospiro e disse “Effatà!”, cioè: “Apriti!”. E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente».
La parola spiega i gesti: quelle azioni particolari non erano magie, non erano il tentativo (piuttosto invadente) di imitare i guaritori del tempo, ma erano gesti di liberazione, di apertura, di scioglimento.
Proprio questo significato (liberazione, apertura, scioglimento) è quello che ci può permettere di andare al di là del miracolo individuale, perché ciò che qui Gesù ha fatto diventa un simbolo di tutta la sua opera: liberare, aprire, sciogliere.
Purtroppo non sempre la Chiesa ha saputo comprendere e rilanciare questo agire di Gesù.
Anzi sempre più persone denunciano di aver incontrato ambienti ecclesiali opprimenti (il contrario della liberazione), chiusi (il contrario dell’apertura), che hanno creato molti nodi interiori (invece di scioglierli).
Invece che abilitare all’ascolto e alla parola, all’ascolto della Parola (liberante, aprente, sciogliente) e al coinvolgimento dialogico con essa, si sono riempite le orecchie (fino a tapparle) di chiacchiere (formule, minacce, spauracchi…) e si sono annodati nodi (psicologici, affettivi, moralistici…) che hanno annichilito le persone.
Forse ormai è troppo tardi, ma il mio sogno è che – nonostante tutto – la gente possa tornare a Gesù, alla sua parola, alla sua prassi liberante, che apre i nostri canaletti interiori e scioglie i magoni che abbiamo dentro.