Riprendiamo la lettura del vangelo dopo la pausa estiva.
Siamo poco dopo la metà del testo di Matteo e il brano di questa domenica ci presenta un momento di svolta nella vita pubblica di Gesù.
Dopo aver portato avanti la sua missione di annuncio del regno in Galilea, Gesù inizierà ad annunciare la sua passione e morte e a dirigersi verso Gerusalemme.
L’episodio che chiude la prima parte del vangelo e inaugura la seconda, è proprio quello che ci viene oggi presentato e che è collocato a Cesarèa di Filippo.
Gesù vuole sapere dai suoi discepoli e dalle sue discepole che cosa la gente dica riguardo a lui, cioè che cosa hanno capito di lui.
Le persone pensano che lui sia un profeta: Geremia, oppure Elia (del quale la Bibbia non racconta la morte, ma una sorta di “assunzione” in cielo) o Giovanni Battista (redivivo).
Il titolo di “profeta” era molto importante. Il profeta, in Israele, era quella figura che sapeva leggere il presente.
Cosa intendo?
Spesso si usa il termine “profeta” in maniera impropria per indicare gli indovini, coloro che sanno leggere il futuro. In realtà, il profeta biblico è colui/colei che – alla luce della sua intima e profonda relazione con Dio – acquista uno sguardo sapiente sulla storia e sulle sue vicende.
In questo senso, spesso, i profeti hanno saputo leggere il presente (e, dunque, anche intuire come sarebbero andate a finire certe cose). Il loro annunciarlo (mettendo in guardia, sgridando i potenti, rincuorando il popolo, ecc.) li ha, però – altrettanto spesso – messi nella situazione scomoda di dire cose impopolari e di criticare il potere…
Da qui la loro persecuzione.
Pensare che Gesù fosse un profeta non voleva perciò dire qualcosa di sminuente nei suoi confronti, ma anzi, voleva dire aver intuito qualcosa di estremamente vero circa la sua identità.
Gesù, tuttavia, prosegue la sua “indagine” e – rivolgendosi stavolta direttamente ai suoi e alle sue – chiede: «Ma voi, chi dite che io sia?».
Pietro, rispondendo, fa la sua (molto nota) professione di fede: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
L’apostolo, cioè, attribuisce a Gesù i due titoli con cui poi verrà identificato dalla Chiesa: Gesù è il Cristo (cioè il Messia) e il Figlio di Dio.
Il punto è: cosa vogliono dire questi titoli?
Cosa vuol dire che Gesù è il Cristo (l’unto, il prescelto, l’eletto) e il Figlio di Dio?
Il rischio, per noi che siamo venuti/e al mondo e alla fede molti secoli dopo, è quello di prendere la risposta di Pietro (“Gesù è Cristo, il Figlio di Dio”) – che ormai è diventata una formula fissa del linguaggio credente – continuare a ripeterla (nelle preghiere, nelle professioni di fede, nei nostri discorsi edificanti, ecc.), dire che è ciò in cui crediamo, senza sapere cosa voglia dire, senza mai esserci interrogati/e su cosa voglia dire che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio.
Il percorso che ricominciamo oggi, al seguito del vangelo di Matteo (che ci accompagnerà fino alla fine di questo anno liturgico – il nuovo ricomincerà in avvento), dovrebbe essere quello di riempire con le nostre parole quelle formule, di trovare una risposta che sia nostra (e allo stesso tempo fondata evangelicamente) alla domanda di Gesù: «Ma voi, chi dite che io sia?».