Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro:
… “i nostri padri hanno fatto una fatica immensa per arrivare a un minimo grado di civile convivenza umana e religiosa. E adesso arriva Gesù, il figlio del falegname, a farci questi discorsi assurdi!!” – avranno detto questi rabbini! Le Scritture narrano appunto del lento cammino per depurare gli antichi miti religiosi ancestrali, sempre risorgenti, da tutto quanto contenevano di inquinato dalle paure ataviche e dai conseguenti riti propiziatori “sanguinari”, dalle visioni distorte e cannibalesche degli idoli creati dall’uomo. “Come costui può darci la sua carne da mangiare?”. C’è una cultura elaborata nei millenni, che esprime il livello massimo delle possibilità umane nel cosmo. È la cultura, è il nido dove cresce l’uomo: è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo (Giov. P. II). E’ la conoscenza accumulata da tutte le scienze e le esperienze di cui è portatrice la storia umana, nel bene e nel male. È il cantiere antropologico, che produce e trasmette la “cultura”, lo specifico dell’uomo. Così impregnante e totalizzante per noi, che attinge non soltanto l’avere, ma l’essere dell’uomo in cammino nella storia. In questo cantiere il cristiano non ha nessun privilegio, cerca, prova e sbaglia come tutti. Ha solo la ragione e un tormentato desiderio di bene, come tutti… e la competizione, come motore decisivo di ogni movimento Ma i Giudei hanno capito male, hanno stravolto il piano di cui parlava il Signore… Gesù non rifiuta questo livello di cui anche lui partecipava, perchè non era un alieno, ma viveva in questo mondo. Ne ha denunciato però apertamente i limiti “mortali”, rispetto al livello di conoscenza ed esperienza “altra” da cui lui proviene ‑ e che lui vive quaggiù e propone come accessibile anche a noi: questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i vostri padri e morirono!
se non mangiate la carne del figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue non avete in voi la vita…
C’è una sapienza che viene dall’alto (dalla Parola di Dio), che, pur non spendibile sul mercato culturale, “si offre” di insegnarci a rispondere agli interrogativi che nel perimetro culturale in cui siamo chiusi, sono senza risposte, o squalificate come insensate: a che serve conquistare il mondo se non salviamo l’intima verità della persona? perchè manipoliamo in ogni modo la natura, ma rimaniamo alla fine impotenti e sbigottiti di fronte ad un cadavere umano, come i nostri primi antenati? perché l’uomo, da quando è diventato capace di pensare e di amare, ha riempito la sua storia di oppressioni e di lacrime, più che di benessere e sorrisi?
C’è una fame di risposte che non ci può venire dal mondo: è la fame di conoscenza vitale sperimentale (nutriente) di cui parla il Signore: chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete (Gv 6,35). La sapienza (questa empatia col sapore delle cose nutrienti!) di cui parla la Parola, non è riservata agli intellettuali, o asceti, o illuminati…come la sapienza mentale o l’ascesi morale, che è appannaggio dei privilegiati di questo mondo… Ma è “consegnata dal Padre” ai poveri e agli ignoranti, ed anzi è ostica agli intelligenti e ai sapienti, che fanno più fatica a entrarvi, se non diventano piccoli (Mt 11,25)… Questo è il fatto cristiano importante. C’è dunque una stoltezza mondana alienante da cui sfuggire, per comprendere nello Spirito qual è il progetto di Dio sul mondo, come ci ricorda Paolo: vigilate attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti…
il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo
Il discorso di Gesù si fa ora eucaristico. Si sposta sulla dimensione sacramentale, ormai nota ai lettori di Giovanni (più che ai giudei contemporanei di Gesù). A scanso di ogni equivoco o addolcimento del significato delle sue espressioni, ribadisce subito: il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo – se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Segna così la conclusione del discorso: il pane dei versetti precedenti diventa “vero cibo e vera bevanda”! L’io di Gesù, la sua stessa umanità, diventa “la mia carne e il mio sangue”. Il verbo diventa futuro (il pane che io darò) E infine, dei vari verbi di area semantica simile, per dire “mangiare”, il vangelo sceglie il più forte: trogo, cioè divorare. Giovanni, com’è noto, non racconta l’ultima cena, ma ne illumina qui il significato. Chi mangia …e beve … ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Con un linguaggio volutamente duro e scabroso, ribadisce sia il realismo del banchetto eucaristico, sia il suo significato ineludibile, cioè la realtà dell’incarnazione passione e morte di Gesù, come vita/salvezza degli uomini, resa efficace, presente e accessibile alla comunità cristiana di ogni tempo (contro ogni svuotamento gnostico, intellettualistico o spiritualistico). Non si tratta affatto di un rito magico, staccato dalla vita quotidiana. Anzi, da solo, il sacramento non serve, se non si traduce in una “vita”. L’intimità così forte “alimentare” e assimilativa, tra Gesù e il discepolo al banchetto eucaristico, è manifestata dal “dimorare” reciprocamente l’uno nell’altro. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. L’eucaristia assunta e mangiata nella fede dona la stessa vita che ha Gesù – che attraverso questa comunione inabita con la massima intimità nel discepolo e viceversa. Questo è il frutto fecondo legato alla sua morte per noi, che ha trasformato il suo corpo in cibo di salvezza per la nostra fame, il suo sangue in bevanda dissetante per la nostra sete. Dire di questo cibo/bevanda che è “vero”, vuol dire affermare che è superiore a qualsiasi altro cibo o rito o sapienza o magia… proposte – da sempre e fallacemente! ‑ agli uomini, per sfuggire alla morte. Tutto è partito dall’amore del Padre e a lui ritorna – attraverso Gesù, che ci nutre. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Il pane eucaristico introduce nel reciproco amore tra Gesù e il credente (dimorare), ma Gesù così realizza in noi l’antica promessa, cioè la Nuova Alleanza con Dio, nel suo sangue: un nuovo rapporto che ci rende “capaci” (ammaestrabili) direttamente da Lui. Ormai viviamo di Gesù – cioè della sua unione con il Padre (è la sua identità definitiva!). Quindi, pur immersi ancora nelle contraddizioni della vita e nella nostra debolezza congenita, “camminiamo” verso il Padre, superando di giorno in giorno le nostre debolezze nell’annuncio e nella esperienza della riconciliazione. Che non è solo futura, ma germoglia già adesso tra noi: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue “ha” la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno!.
… Chi mangia “questo” pane vivrà in eterno
Non c’è, dunque, tecnica filosofica o espediente religioso, strategia o cultura, che possa affrontare le domande vitali dell’uomo sulla terra – e soprattutto la domanda di una vita… che continui. Domanda giudicata stolta dalla saggezza mondana (su questo ti sentiremo un’altra volta, dicono gli ateniesi a Paolo). Gesù conclude il suo discorso, senza sconti o scorciatoie, per rispondere alla fame insaziata dell’uomo sulla terra. L’eucaristia è una totale liberazione da ogni idolo o dio immaginario, costruito dagli uomini. Infatti diranno subito: questo discorso è duro! È invece frutto della compassione, cioè del totale schieramento affettivo del Padre di Gesù con la sofferenza insensata dell’uomo sulla terra. Mette a nudo la profonda ingiustizia del nostro “esistere per morire”, sintetizzata nel grido sulla croce, che raccoglie, senza risposta, il rantolo di ogni uomo: Dio mio, Dio io perché mi hai abbandonato? Denuncia la tragica futilità delle coperture miracolistiche o “religioso – provvidenziali”, che l’uomo si inventa, illudendosi di aggiustare i piccoli incidenti della vita, a nostro favore, lasciando intatti i problemi strutturali ‑ l’immensa sofferenza ‑ dell’umanità. L’eucaristia svela in modo “duro” com’è diverso invece il punto di vista del “Padre” ‑ che ci ha mandato Gesù e si è rivelato nella sua drammatica vicenda umana. Il discorso è partito “all’inizio” dalla fame dell’uomo, che muove Gesù a compassione: Gesù disse a Filippo: «Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?»…. Diceva così per metterlo alla prova; egli, infatti, sapeva bene quello che stava per fare… Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero. Il discorso arriva “alla fine”, con la risposta “nel dono” che Gesù fa di sé stesso, come cibo vero da mangiare per gli uomini: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Condivisione e dono totale di sé ‑ sono “l’esperienza cristiana prima” vissuta e testimoniata da Gesù, e poi promessa e proposta ai suoi discepoli. Un’esperienza vitale, non soltanto “predicata” da Gesù, ma come immessa “alimentarmente” negli uomini che vogliono seguirlo e contribuire a realizzare con Lui il disegno di riconciliazione e di amore del Padre sul mondo.
La storia della teologia e della spiritualità – oltre che della nostra vicenda comunitaria e personale – è il racconto degli sforzi titanici (o sisifici) per sfuggire a questa semplicissima e scandalosa verità: al di là e al di dentro del cammino doveroso della cultura umana, che percorriamo con tutti gli uomini (Lc 17,10) – non c’è soluzione vera e radicale ai conflitti fraterni e alla caducità della vita, che darsi da mangiare … come ci ha resi edotti e come ci ha “alimentati” Gesù. Per questo il racconto del discorso eucaristico di Giovanni si concluderà, alla fine del capitolo, “ingoiando” il mistero di salvezza, con la professione di fede eucaristica di Pietro e degli apostoli: solo tu hai parole di vita eterna!