XVIII Domenica del tempo ordinario (commento)

Il vangelo di questa domenica ci presenta un dialogo avvenuto a Cafàrnao dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci (di cui abbiamo letto la settimana scorsa) tra Gesù e la folla.

Mi paiono soprattutto tre i passaggi da sottolineare.

Il primo è l’invito di Gesù a darsi da fare «non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna». Questo suggerimento – credo – possa intercettare un gran numero di persone, al di là della loro appartenenza ecclesiale o meno, perché rimanda a un anelito che è proprio di ogni essere umano: vivere è qualcosa di più del mero sopravvivere. La vita umana va molto al di là del semplice soddisfacimento dei bisogni primari o dei bisogni indotti di ciò che non dura (nel tempo e nel senso).

E, tuttavia, secondo la narrazione evangelica, il “cibo che rimane” non è qualcosa da cercare, conquistare, scoprire. Quell’oltre della vita umana è qualcosa «che il Figlio dell’uomo vi darà».

Si tratta del secondo passaggio fondamentale del brano: ciò che rimane è qualcosa che non costruiamo noi, ma qualcosa che ci arriva in regalo dal “Figlio dell’uomo”, cioè da Gesù stesso.

È, infatti, a questo punto del discorso che l’evangelista attua una sovrapposizione tra “il cibo che rimane” e “il pane dal cielo”, che viene anche chiamato “il pane di Dio che discende dal cielo [e] dà la vita al mondo”.

L’ultimo passaggio è, infine, l’identificazione di questo pane di vita con Gesù stesso: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».

Schematizzando, potremmo dire che Gesù ricorda alla folla che la nostra esistenza è molto più della sopravvivenza, che accanto a un cibo materiale, bisogna darsi da fare per un cibo che rimane. Questo cibo, questo pane va accolto, perché è donato da Lui, anzi, è Lui.

Questa affermazione finale è formulata con il linguaggio della similitudine che pervade tutto il testo e non va quindi intesa in senso fisicista: non vuol dire “mangia la particola consacrata e andrai in paradiso”. Non è una magia.

Gesù, piuttosto, sta dicendo che chi entra in relazione con Lui, trova (o meglio, scopre che gli è dato in dono) quel senso che fa piena la vita.

Non a caso, quando la folla gli chiede: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?», Gesù risponde: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato», dove quel credere non vuol dire ripetere formule o proclamare un’adesione estrinseca.

Credere significa ritenere credibile, affidabile qualcun altro, qualcun’altra. Vuol dire sbilanciarsi in una relazione, cioè in un inziale (e poi, tendenzialmente, sempre più coinvolgente) compromettersi con e per l’altro/a, fino a legare i destini e intrecciare le vite con l’altro/a.

Questa è la proposta che Gesù lancia nella storia dell’umanità e nella storia di ciascuno/a di noi: ritenere credibile che ciò per cui davvero vale la pena vivere, ciò che rimane, è la relazione con il Signore, è l’intreccio della sua esistenza con la nostra, che ci fa scrivere storie, vite, rapporti evangelici. Ciò che rimane è quel modo tutto particolare di vivere la vita che mette al primo posto l’amore.

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