Questa settimana la liturgia ci propone di staccarci dal vangelo di Marco, per seguire il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci secondo l’evangelista Giovanni.
L’evento è probabilmente uno dei più noti della vita di Gesù, anche perché è narrato (in alcuni casi più volte) in tutti i vangeli.
Come si evince dalla prima lettura, in cui il medesimo segno avviene con il profeta Eliseo, il moltiplicare il cibo è uno dei gesti spesso attribuiti agli uomini di Dio. Anche di don Bosco, per esempio, si racconta qualcosa del genere.
Cosa vuol dire ciò?
Che sono racconti stereotipati (“fissi”) che servono ad accrescere la considerazione di alcuni personaggi ritenuti santi? Che quindi non sono realmente accaduti, almeno nella modalità un po’ magica con cui vengono raccontati?
Ognuno faccia le sue considerazioni. Certo è che la ricorrenza del motivo “dare da magiare”-“non averne a sufficienza per tutti”-“riuscire a sfamare” chiede di essere indagata.
Il punto prospettico da cui vorrei oggi guardare la questione è questo: c’è dare da mangiare e dare da mangiare…
Cosa intendo dire? Che al di là delle nostre interrogazioni molto moderne al testo (come sono andate le cose? È successo veramente? Com’è possibile? ecc…), la vera questione di fondo è il senso di quel dare da mangiare.
Credo che tutti associno il “dare da mangiare” a una delle attività primarie e costitutive delle famiglie: nutrire i figli è l’unico modo per farli sopravvivere e vederli crescere, per dargli una vita; si continua a farlo anche quando sono belli cresciutelli, magari la domenica, nei classici pranzi di famiglia in cui mamme, nonne (e sempre più spesso anche papà e nonni) si mettono ai fornelli producendo pietanze per un esercito; tanto più poi se i figli sono lontani… il famoso “pacco da giù” è praticamente stipato di ogni ben di dio… “Dare da mangiare” è poi locuzione che spesso si usa rispetto alla necessità del lavoro o alla sua perdita: “Come farò a dare da mangiare ai miei figli?”…
In questo ambito semantico, che sia quello della nonna che prepara polenta e coniglio o quello di chi teme di non riuscire a portare a casa lo stipendio, il “dare da mangiare” ha un significato vitale: il suo scopo è dare vita, dare possibilità di vita, prendersi cura, occuparsi…
C’è però un altro senso che il “dare da mangiare” può assumere ed è quello di assoggettare: usare cioè la condizione di bisogno dell’altro per sottometterlo, renderlo debitore, non farlo essere libero nei nostri confronti. Non è un caso, per esempio, che l’emancipazione femminile sia passata attraverso il lavoro e dunque l’autonomia economica.
Questo modo di intendere e usare il “dare da mangiare” è quello che il serpente nel deserto suggerisce a Gesù nelle tentazioni: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane»… con il sottinteso: così tutti ti osanneranno, li avrai ai tuoi piedi… «Ma Tu non volesti privar l’uomo della libertà e respingesti l’invito, perché, cosí ragionasti, che libertà può mai esserci, se la ubbidienza è comprata coi pani?» [F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov].
Gesù fa il medesimo ragionamento anche nel brano di vangelo di oggi: «Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo».
I gesti di Gesù, così come i gesti di ciascuno di noi, hanno sempre insita un’ambiguità. Una volta individuata, diventa necessario decidere – fra i vari sensi che le azioni possono avere – qual è quello che riconosciamo a colui che lo compie. Cosa ha voluto fare Gesù moltiplicando i pani e i pesci? Che significato dava lui al “dare da mangiare”?
Era un nutrire vitale o assoggettante?
Qual era la scopo del suo agire?
Dalla risposta a queste domande emerge l’identità di Gesù.
E se vi sembra fin troppo scontato che il senso del suo “dare da mangiare” fosse per la libertà e non per la schiavitù, che dunque lui fosse un liberatore e non un sottomettente, mi spiegate perché ci sono e ci sono stati così tanti cristiani che hanno vissuto la relazione con lui da asserviti?