Il brano di vangelo di questa domenica ci presenta un momento di grande fermento nel gruppo radunato attorno a Gesù.
Gli apostoli – termine che significa proprio “inviati” –, dopo essere stati mandati «a due a due» da Gesù, tornano a riferire «tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato».
«Erano molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare».
Ecco perché Gesù decide di prenderli in disparte, loro soli, e di portarli in un luogo deserto a riposare.
Noi sappiamo, da come continua il testo, che non riusciranno nel loro intento, perché «molti li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero», ma prima di vedere come prosegue la vicenda, mi sembra importante soffermarsi un attimo sulla prima parte del racconto.
Per capire la situazione può essere utile provare a ricordare / immaginare i nostri momenti di fermento, movimento, quando anche a noi è capitato di essere così indaffarati da non avere nemmeno il tempo di mangiare.
Sono momenti di grande effervescenza, di iper-attività, di grandi sollecitazioni.
Momenti intensissimi e – proprio per questo – non infiniti.
Fisiologicamente a un periodo di grande lavorio ne segue uno in cui “si tira il fiato” e in cui si interiorizza ciò che si è vissuto.
La vita è fatta di azione e di pensiero sull’azione, in una circolarità che nutre le varie fasi: quando infatti dobbiamo fare qualcosa, quel qualcosa è in qualche modo già oggetto del nostro pensiero. Pensiamo a come farla, abbiamo delle attese, delle paure, delle precauzioni… Poi agiamo, ma anche mentre agiamo, pensiamo a quello che stiamo facendo. Ad azione finita, ri-pensiamo poi a ciò che abbiamo agito, a come abbiamo agito e in questo modo interiorizziamo ciò che abbiamo vissuto e iniziamo a pensare a cosa fare da lì in avanti.
In questo circuito di azione e pensiero contemporaneamente emerge chi siamo e ciò che diventiamo, perché, se da un lato, ciò che facciamo e come pensiamo dice chi siamo, dall’altro, le cose nuove che facciamo e pensiamo, ci trasformano e ci fanno essere altro.
Tutta la nostra esistenza può essere letta in questo circuito di farsi e pensarsi, essere e diventare.
Così può anche essere letta la vita degli apostoli e quella di Gesù stesso.
Nello specifico caso di cui parla il vangelo di oggi, sono rintracciabili o comunque intuibili i pensieri delle persone in gioco: le attese, le paure, le precauzioni degli apostoli prima di iniziare la loro attività di inviati; le speranze, le preoccupazioni, i suggerimenti di Gesù; il chi sono e il chi diventano dopo questa esperienza di missione e di invio in missione di altri rispetto a se stessi.
Manca invece il momento successivo del pensare l’azione, perché – sebbene la loro intenzione fosse quella di ritirarsi in disparte, riposarsi, pensare insieme – le cose non vanno come da programma.
Nella storia interviene l’azione di qualcun altro che li costringe a fare diverso da come avevano immaginato: molte persone, vedendoli partire, li precedono e li attendono a destinazione.
Non so voi, ma io faccio una fatica terribile a rivedere i miei programmi: gli imprevisti mi affaticano e “ricalcolare il percorso” come i navigatori delle automobili, è sempre accompagnato da un po’ di nervosismo.
Gesù invece accoglie il cambio di programma senza scomporsi.
Perché?
Perché, dice il vangelo, «ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose».
Il disorientamento altrui, il bisogno della gente di trovare un punto di riferimento, la sua passione per l’umano, porta Gesù a “ricalcolare il percorso” nella loro direzione.
Quando la circolarità azione-pensiero è colta in contropiede dalla storia, la reazione al “ricalcolo del percorso” è un altro indizio che ci dice qualcosa sull’identità di una persona e sulle sue priorità.
Qui, come in altre circostanze, emerge con chiarezza che in Gesù il primato è dei volti e non dei programmi, è dell’umano e non della legge.
E noi? Cosa dice di noi il nostro agire, pensare, ricalcolare?