Il vangelo di questa domenica è composto da due parti. La prima coincide con i versetti 25-27 del cap. 11 di Matteo (dall’inizio fino a «colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo»), la seconda con i vv. 28-29 (gli ultimi).
La prima parte, quella che viene anche definita “Inno di lode” («Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra…») è presente anche nel vangelo di Luca, al cap. 10, vv. 21-22. Lì, il medesimo inno di lode, è collocato subito dopo il ritorno dei discepoli, inviati ad annunciare che Dio ama tutti.
Nel vangelo di Matteo, invece, dopo il discorso sulla missione del cap. 10, c’è un altro episodio che si frappone all’“Inno di lode”, quello in cui Giovanni Battista manda a dire a Gesù «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 10,3).
Al di là di queste varianti, il contesto è comunque in medesimo: dopo un’attività di predicazione, spostamenti, incontri, ecc… Gesù si rivolge al Padre, chiamandolo «Signore del cielo e della terra» e lodandolo perché ha «nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli». Alcune traduzioni invece che «Ti rendo lode Padre», hanno «Riconosco a te Padre», «Mi compiaccio con te, o Padre». Gesù quindi è solidale con il Padre, con la sua scelta che “queste cose” siano accessibili ai piccoli e non ai sapienti.
Per indicare i “piccoli” gli evangelisti usano il termine greco destinato a designare i bambini, i neonati, i lattanti, quindi il binomio da considerare non è tanto “intelligenti-stupidi”, ma “teste già strutturate-teste vergini”: queste ultime hanno accesso alla conoscenza di chi è Dio, al suo rivelarsi e farsi conoscere in Gesù.
Il che non vuol dire che chi ha già la testa strutturata è impossibilitato a conoscere il Padre, attraverso Gesù, ma deve “destrutturarsi” e elasticizzare la mente, tornare come bambino: altrimenti la novità di Gesù verrà presa dentro alla vecchia struttura mentale, riconvertita in vecchi schemi, resa coerente con quanto si sa già e dunque compresa non per quello che è veramente, ma come prodotto finito di un processo di normalizzazione che – di fatto – smarrisce la novità.
È un po’ quello che avviene quando si conosce una persona nuova: o ti rendi un po’ vergine o non puoi farti sorprendere dalla sua novità, come canta Vecchioni in Le rose blu: «quante volte ho creduto e ho amato, sai, come se non avessi mai creduto, come se non avessi amato mai».
Questo era vero per gli Ebrei di 2000 anni fa, ma è vero anche per i cristiani di oggi: la strutturazione religiosa della nostra mente, invece che una chiave d’accesso, è diventata un impedimento per incontrare la novità di Dio in Gesù. Per questo è necessario destrutturarsi, tornare un po’ vergini dal punto di vista religioso, fors’anche provare a rendersi un po’ atei.
Il vangelo di Matteo si conclude poi con due versetti che sono solo suoi (Luca non li riporta): «Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Sono tra le parole più belle del Nuovo Testamento: non hanno bisogno di nessun commento. E forse, in questo periodo, è ancora più piacevole ascoltarle, soprattutto in quella traduzione per la quale «vi darò ristoro» diventa «Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi riposerò».