«Àlzati: anche io sono un uomo!» dice Pietro a Cornelio che gli si è inginocchiato davanti «per rendergli omaggio».
«Àlzati: anche io sono un uomo!»… cioè anche io non sono Dio, anche io sono un uomo come te. E non importa che io sia un apostolo e tu un pagano (un non battezzato), siamo alla stessa “altezza”. Siamo ugualmente umani.
L’atteggiamento di Pietro, la naturalità del suo riconoscere l’umanità di Cornelio, la capacità di rimetterlo all’“altezza giusta” è qualcosa in cui dovremmo stare a bagnomaria, per farlo diventare il nostro modo normale di guardare gli altri: rialzandoli, appunto, cioè “facendoli risorgere”, perché è solo quando ci si riconosce, che si entra in una relazione di benevolenza. Ogni male inflitto ad un essere umano nasce infatti dal non riconoscerlo “essere umano come me”, dal non guardarlo da pari ma da sopra.
Nemmeno il non essere ebreo (e cristiano) “abbassa l’altro” per Pietro. Anzi, confessa l’apostolo: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga».
In un mondo che oggi come allora (su questo l’umanità non ha fatto grandi progressi) continua a individuare criteri di distinzione tra “noi e loro”, il Nuovo Testamento propone una solidarietà trasversale tra chi pratica la giustizia: può essere di un’altra nazionalità, un’altra religione, un altro colore, un’altra squadra, un altro partito, ecc… ma se pratica la giustizia fa parte di quegli “uomini di buona volontà” che costruiscono il Regno (un mondo migliore per tutti).
È come una sorta di Internazionale dei giusti, degli umani che guardano agli umani come umani, che ottemperano all’unico comandamento di Gesù: «che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi», dove “gli uni gli altri” è espressione inclusiva, cioè che non lascia fuori nessun umano.
Certo “giustizia”, “umanità”, “amore” sono termini consumati, che rischiano di voler dire tutto e niente. Eppure… ognuno di noi sa cos’è l’ingiustizia, la disumanità, l’indifferenza.
Non è difficile rileggere i recenti fatti di cronaca, così come gli eventi della nostra vita, da questa prospettiva. Ognuno di noi sa riconoscere benissimo quando qualcuno (fossi anche io) è stato ingiusto, disumano, indifferente, quando ha sentito di valere più di qualcun altro, quando ha pensato che la sua vita valesse più di quella di un’altra persona. Così come ciascuno di noi sa riconoscere benissimo quando qualcuno (magari io) è stato un giusto, si è comportato in maniera umana, ha amato, quando ha riconosciuto che chi gli stava davanti valeva, che la sua vita valeva quanto la sua.
Il problema non è “sapere”, ma “scegliere”, scegliere chi essere, scegliere se aderire all’Internazionale degli umani oppure no; e sceglierlo non perché altrimenti c’è una punizione (anzi, spesso a essere ingiusti, disumani e indifferenti si guadagnano soldi, ossequi e tranquillità) e nemmeno per conquistare meriti (sarebbe solo un modo più sotterraneo per stare sopra gli altri); ma – come canta De André – «per consegnare alla morte una goccia di splendore», per non sprecare la vita che ci è capitato di vivere dietro a meschinità, che ci rendono meschini, ma impiegarla per l’unico ideale per cui vale la pena vivere (e dunque anche morire): lasciare il mondo più bello di come l’abbiamo trovato, un mondo il cui tasso di amore, anche grazie a noi, si è alzato e non abbassato.
È stata la vita di Gesù. È la sua proposta per noi.