VI Domenica di Pasqua (commento)

Oggi, come nelle due domeniche precedenti, la Chiesa ha scelto di farci leggere un testo tratto dal vangelo di Giovanni e – in particolare – dal vangelo di Giovanni che narra di quando Gesù è ancora in vita: il primo era al cap. 10, il buon pastore; il secondo era al cap. 15, la vite e i tralci; quello odierno è la continuazione di quest’ultimo (Gv 15,9-17).

Salta subito all’occhio infatti il richiamo al “rimanere”: come il tralcio porta molto frutto quando rimane nella vite, così Gesù invita a rimanere nel suo amore perché la nostra gioia sia piena.

Torna, quindi, la domanda della settimana scorsa: cosa vuol dire rimanere?

In particolare, oggi la domanda si specifica così: cosa vuol dire rimanere nell’amore di qualcuno/a?

La risposta immediata che può venirci in mente è che per rimanere nell’amore di una persona sia necessario in qualche modo compiacerla, farla contenta, che sia contenta di noi…

Si tratta di una risposta quasi automatica… ma è una pessima risposta…

Primo perché apre la strada alla perdita di dignità e al rischio di soprusi: quante donne sono state mortificate nella loro intimità per compiacere, far contenti, “tenere buoni” i compagni.

Secondo perché è una risposta che non esce dalla dinamica mercenaria, di mercato, di cui parlavamo due settimane fa. La premessa implicita di questo ragionamento è, infatti, che il bene dell’altro in qualche modo vada meritato. E “merito”, come abbiamo già avuto modo di dire, ha la stessa radice di “meretricio”, cioè, appunto, di amore a pagamento.

Terzo perché non è vero. Non so a voi, ma a me è capitato, più di una volta, che qualcuno rimanesse nel mio amore anche se non mi compiaceva, non mi faceva contenta e, anzi, mi aveva proprio deluso.

E allora? Come si fa a rimanere nell’amore di qualcuno/a?

È davvero in nostro potere rimanere o non rimanere nell’amore di un’altra persona? Nell’amore del Signore?

Per come ho conosciuto io il Dio che Gesù ci ha mostrato, no: l’amore che nutre per ciascuna persona non segue dinamiche di mercato, non si basa sul merito e rimane anche quando non lo compiacciamo, non lo facciamo contento o lo deludiamo.

Ma allora perché questa insistenza sul rimanere nel suo amore?

Sembra quasi il grido di un innamorato… rimani… cioè il farsi parola del desiderio del cuore di Dio perché rimaniamo, appunto, a nostra volta innamorati: come un bimbo che dice alla mamma “Non morire mai”…

Per giungere poi alla sorpresa finale: come si fa a rimanere, cioè a non morire mai, a rispondere al grido innamorato di Dio che ci chiede di non lasciarlo?

«Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore. […] Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi».

Il paradosso finale della relazione d’amore col Signore è che non si tratta di una relazione biunivoca, a due, dove Lui mi ama e mi chiede di ri-amarlo. Si tratta piuttosto di un circuito aperto, in cui ciò che io ricevo non torna indietro, ma casca fuori, verso qualcun altro/a: un po’ come una canna dell’acqua, in cui l’acqua (l’amore) non va e viene tra lui e noi, tra lui e me, ma si riversa fuori, su qualcun altro/a, innaffia qualcun altro/a (o innaffia noi, se la canna è quella degli altri / delle altre).

Questo è l’amore paradossale in cui Gesù ci invita a rimanere.

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