Il vangelo di questa domenica ci presenta l’incontro di Gesù con un lebbroso.
Io trovo che il racconto di questo incontro sia uno di quei testi che più di tutti può farci capire la personalità di Gesù, chi era veramente, come pensava, come “funzionava”.
È necessario dunque “capire bene” cosa accade in questo episodio, perché il rischio è altrimenti quello di fraintendere chi è Gesù.
Per esempio… se non capiamo bene i contorni della situazione, potremmo arrivare a conclusioni banali e superficiali, del tipo “qui si vede quanto Gesù era buono: sta vicino ai malati”… veicolando la visione di un Gesù melenso che assomiglia allo stereotipo della suora angelica, pronta a mortificare se stessa per piacere a Dio.
Oppure potremmo concludere “qui si vede la potenza di Gesù, il suo essere Dio, capace di sovvertire le regole della natura e addirittura far sparire la lebbra”… veicolando un’immagine virile di Gesù, che esercita la forza e che quindi – finché è dalla nostra parte – è da osannare (mica che poi la usi contro di noi), mentre – se per caso ci troviamo a scontentarlo – è da impietosire (perché non ci castighi).
Infine – sempre in maniera banale e superficiale – potremmo concludere che “qui si vede quanto era pio e devoto Gesù, rispettoso delle regole imposte dalla religione, ossequioso verso la gerarchia sacerdotale e umile, tanto che non voleva che nessuno sapesse il bene che aveva fatto”, veicolando un’idea di persona che assomiglia molto a quella che nei tempi passati era indicata come raffigurazione del “buon cristiano” (pio, devoto, osservante dei precetti, supino alla gerarchia ecclesiastica, umile…).
Ecco… Per evitare di cadere in queste letture fuorvianti, è necessario inquadrare bene la questione.
Partiamo dall’inizio: «venne da Gesù un lebbroso»… e già qui c’è un problema, perché i lebbrosi non potevano andare verso le altre persone, ma dovevano starsene alla larga e addirittura avvisare gli altri della loro presenza, urlando, in modo che, nemmeno per sbaglio, gli altri si avvicinassero.
Queste regole non sono da biasimare: era il modo che si era trovato per evitare il contagio (allora si credeva infatti che la lebbra fosse contagiosa, anche perché si usava la parola “lebbra” per denominare non solo la malattia propriamente detta, ma anche le altre varie forme di eruzione cutanea).
Gesù, dunque, fin dal primo momento è davanti a un bivio: esporsi al rischio del contagio, lasciando avvicinare il lebbroso, e trasgredire le regole della convivenza civile (regole peraltro sacralizzate – così che siano osservate) oppure no.
Gesù sceglie di lasciarlo avvicinare (non scappa, non gli dice di stare lontano): sceglie dunque di mettere a rischio la propria salute e di trasgredire le leggi, le leggi scritte nella Bibbia (come ci ricorda la prima lettura, le norme sulla lebbra sono contenute nel libro del Levitico, il libro N° 3 della Bibbia, cioè uno dei primi 5: ricordo che la parte più “importante” della Bibbia ebraica, come peraltro dell’Antico Testamento cristiano, sono proprio i primi 5 libri, la Torah o Pentateuco).
Gesù poi – addirittura – «tese la mano, lo toccò». Non solo lascia che il lebbroso si avvicini, ma prende l’iniziativa di annullare l’ultima distanza rimasta: «tese la mano, lo toccò».
Chi è quindi Gesù? Chi decide di essere?
È uno che mette a repentaglio la propria salute e che trasgredisce i precetti della parte più “santa” della Bibbia.
Mette a repentaglio la propria salute: È dunque un irresponsabile?
Non rispetta la legge: È un trasgressore della Parola di Dio?
Per rispondere è importante capire le sue ragioni: perché fa dei gesti così di rottura rispetto al buon senso (la salvaguardia della propria salute) e rispetto alla religione (trasgredire la Legge di Dio comportava pene molto severe oltre che il biasimo e la riprovazione)?
Perché Gesù agisce così?
Perché – dice il testo – «ne ebbe compassione». Gesù rischia la propria vita (la propria salute) e va contro la Legge di Dio perché ha compassione di un uomo.
Allora vedete, Gesù non è una suora che mortifica le sue passioni, ma agisce per com-passione (è la passione per l’uomo che guida la sua scelta); non è neanche l’uomo virile che interviene con la supponenza del “ghe pensi mi” (ciò che guarisce l’altro è infatti proprio lo struggimento interiore di Gesù per lui, che – più che virile – è materno); e non è nemmeno il pio, umile e devoto e sottomesso cattolicone (il coinvolgimento affettivo con l’altro lo porta a ribellarsi all’ordine costituito).
Non si può spiegarlo con le parole: bisogna provarlo “nella pancia” quello che Gesù ha scelto di essere. Lo capiremo (o lo abbiamo già capito) quando anche noi ci troveremo (o ci siamo trovati) di fronte a una persona che soffre e decideremo (o abbiamo deciso) – contro il nostro interesse e anche contro le regole, mettendo a rischio noi stessi – di farci prossimi.