Il brano di vangelo di questa domenica ci propone la famosa metafora della vite.
Il testo però contiene già anche la spiegazione delle immagini metaforiche con la loro corrispondenza nella realtà: il Padre è rappresentato dalla figura dell’agricoltore, Gesù da quella della vite e noi da quella dei tralci.
Le espressioni che segnalano le relazioni in atto sono l’attività dell’agricoltore-Padre (prendersi cura della vigna, tagliando e potando), quella reciproca della vite-Gesù e dei tralci-noi (rimanere: «Rimanete in me e io in voi»), quella dei tralci-noi (portare frutto).
Anche se istintivamente ci verrebbe subito da precipitarci su ciò che dobbiamo fare noi (una precipitazione sempre un po’ figlia dell’ansia di essere all’altezza, ansia a sua volta figlia della permanente atavica paura di non piacere a Dio, paura a sua volta figlia di una scorretta immagine di Dio che abbiamo nel cuore), ritengo che sia importante soffermarsi su tutti gli attori che il vangelo mette in campo e su ciascuno dei ruoli che essi svolgono.
Il Padre è l’agricoltore, colui che si prende cura della vigna, con lo scopo (proprio di ogni agricoltore) che la vite sia rigogliosa, porti frutto, viva. Se pertanto una scorretta visione dell’azione del “tagliare” attribuita al Padre, ce lo fa immaginare come colui che è sempre pronto “a farci fuori”, una più fedele lettura ci permette di scorgere in lui colui che ha a cuore il destino dei tralci. Infatti la cosa più interessante da scorgere, a mio parere, è la scelta del Padre di legare il proprio destino al nostro (e a quello di Gesù): se infatti i tralci si seccano, la vita muore e l’agricoltore perde se stesso oltre che alla vite e ai tralci (perché che senso avrebbe un agricoltore senza tralci e dunque senza vite?). Ma solo chi ama, lega il proprio destino a quello dell’amato, degli amati.
Per capire la “posizione” di Dio, sarebbe interessante chiederci a chi abbiamo legato noi il nostro destino, chiederci dunque chi abbiamo amato… solo così forse potremmo capire il tipo di relazione che il Padre ha deciso di instaurare con noi.
Nel testo vi è poi Gesù, la vite, la quale apparentemente non svolge nessuna attività. Guardando meglio però si scorge come anch’essa sia soggetto del verbo rimanere. Non sono solo i tralci a dover rimanere nella vite, ma è anche la vite a dover rimanere nei tralci. Quella del rimanere è dunque un’azione dal doppio soggetto (riguarda Gesù e noi): «Rimanete in me e io in voi». Ciò che bisogna chiedersi è pertanto cosa significhi rimanere. L’immagine della vite ci aiuta: il tralcio e la vite infatti possono vivere solo se tra loro vi è uno scambio di vita, un rifluire della vita, un ricircolo di vita, un passaggio (fatto di andata e ritorno) della vita. Cosa vuol dire questo fuor di metafora? Come può avvenire questo rimanere, rifluire, circolare, passare reciproco della vita?
Beh io credo che, di nuovo, la nostra esperienza umana possa aiutarci a fare luce: con chi abbiamo sperimentato questo darsi reciprocamente vita? Quali azioni, gesti, parole, atteggiamenti, posture interiori (ecc…) hanno caratterizzato i nostri legami vitali?
La domanda diventa allora: Come attuare questa relazione col Signore e con la specificità che lo caratterizza (sostanzialmente non essere presente in carne ed ossa)? Eppure… ogni scambio di vita, ogni relazione, è fondata sull’intrecciarsi di storie: siamo in relazione quando la mia storia (intesa in senso forte: la storia che fa sì che io sia io, la storia che è la mia identità) si intreccia con la tua. Ma la storia di Gesù è accessibile “in carne ed ossa”, perché è attestata (cioè “fatta testo”) nei vangeli. Rimanere vuol dire dunque uscire dal nostro solipsismo e aprirci alla relazione, all’intreccio della nostra storia con quella di Gesù, con la sua Parola, con la sua identità e intrecciarsi così fortemente da legare il nostro destino al suo, che concretamente vuol dire tener conto di lui, della sua presenza in ogni momento della vita, proprio come facciamo con le altre persone con cui abbiamo intrecciato la nostra storia e legato il nostro destino. Anche se non sono sempre in ogni momento qui con noi (e a volte solo lontane anche per tanto tempo, come succede in questa “epoca coviddosa”) non escono dal nostro orizzonte di senso, le teniamo presenti quando dobbiamo decidere cosa fare e quindi chi essere.
Ricordando… che vale anche il contrario: non solo ne va della vita del tralcio, fuori dalle relazione con la vite; ma ne va anche della vita della vite, senza la relazione con il tralcio. Aspetto questo che forse abbiamo un po’ meno presente…
Infine c’è il portare frutto, l’azione che più direttamente riguarda noi-tralci: essa però – come già nella metafora – non è tanto un agire arrivista e competitivo, un “chissà mai cosa devo fare”, ma una naturale conseguenza del rimanere nella vite.
Perché se è vero che è facendo cose buone che si diventa buoni, è anche vero che se si fanno cose buone per paura di un castigo, non ci si diverte a fare cose buone; non si diventa buoni, ma ci si inacidisce, soffocati tra un “dover essere” e un “non essere mai abbastanza”.
Per portare frutto infatti bisogno prima fiorire…
Che bello se ci avessero insegnato che relazionarci a Dio non voleva dire ansimarci per portare frutto altrimenti ci avrebbero tagliato e bruciato, ma voleva dire fiorire…