Il vangelo di questa domenica è tratto dal primo capitolo di Marco, all’interno del quale l’evangelista ci presenta un quadro generale dell’attività di Gesù. Sono due i tratti caratteristici della sua vita pubblica che oggi sono messi in luce: la capacità di liberare dal male (dalle malattie) le persone e il bisogno di vivere momenti di dialogo personale con Dio, suo Padre.
Si tratta di quelle esperienze che noi comunemente chiamiamo “miracoli” e “preghiera”.
Io però, volutamente, ho evitato di usare questi termini, perché – a mio giudizio – essi si sono caricati, nel corso della storia, di così tanti significati distorti, che rischiano di essere fuorvianti.
Iniziamo dai “miracoli”.
Dire che Gesù faceva miracoli è senz’altro corretto, però la parola “miracoli” va specificata. Nell’esperienza storica di Gesù infatti non si è trattato genericamente di fare azioni stupefacenti, che contraddicevano le regole della fisica, della chimica e della biologia (come scrive Chiara Valerio nel suo La matematica è politica: «Il miracolo non è una cosa tanto buona se bisogna modificare la ragione intima delle cose per renderle migliori – voce fuori campo di José Saramago»).
Piuttosto l’esperienza che Gesù ha fatto e ha fatto fare è stata quella della “liberazione dal male”. Noi non sappiamo dire oggi in cosa siano consistiti questi suoi gesti, certo è però che possiamo capirne il significato, il legame che essi avevano con la sua missione, con il suo annuncio di una buona notizia: incontrare Dio vuol dire essere liberati dal male.
Dio, cioè, ci sta dicendo Gesù attraverso le sue azioni, non è colui che infligge il male, come comunemente si pensava e come ancora noi oggi – magari inconsciamente – pensiamo, per esempio quando diciamo “Cosa avrò fatto di male per meritarmi questa malattia?”, sottintendendo “Perché Dio mi sta punendo con questo male? Perché mi sta infliggendo questo dolore?” e, dunque, identificando Dio come qualcuno che può fare tanto il bene quanto il male.
No, ci annuncia Gesù: il male non viene da Dio.
Tant’è vero che Gesù non ha mai usato questa sua capacità straordinaria “al rovescio”: nessun sano ha mai incontrato Gesù e se ne è andato via malato! In Dio non esiste il “rovescio della medaglia”.
Dio è solo buono.
Ecco perché sarebbe ora di smettere di averne paura.
C’è poi la preghiera.
Anche questa esperienza è stata travisatissima e ridotta per lo più al dire preghiere, cioè ripetere formule.
Pregare per Gesù è stata un’altra cosa: nella sua esperienza si è trattato di un “tirarsi in disparte” dal coinvolgimento nelle vicende della vita, per “sintonizzarsi” con Dio, cioè per “accordarsi” con lui, dove “accordarsi” va preso nel senso etimologico di “allinearsi al suo cuore”, per poi tornare – “accordato” – alle vicende della vita.
Se il cristiano è colui che prova a vivere il vangelo, cioè a reinterpretare nell’oggi l’esperienza di Gesù, ad “avere i suoi stessi sentimenti” come direbbe san Paolo, non ci si può esimere dal chiedersi se nella nostra vita “passiamo beneficando”, cioè liberando dal male le persone e se preghiamo, cioè se “accordiamo il nostro cuore con quello del Signore”.
Altrimenti: che seguaci del vangelo siamo? O di quale vangelo siamo seguaci?