È inutile negarlo: ogni anno di fronte alla domenica dedicata alla Trinità ci si trova a disagio.
Sia chi deve ascoltare qualche riflessione, sia chi deve produrla sente, in cuor suo, l’irrequietezza che si prova di fronte a ciò che non è ben chiaro né alla mente né al cuore.
Molti si rifugiano nelle frasi fatte riprendendo il dogma (un unico Dio in tre persone), magari anche avventurandosi in spiegazioni più approfondite sui concili che lo hanno partorito (Nicea – 325; e Costantinopoli – 381) e sul termine “homooùsios” (“stessa sostanza”), centrale per la questione; altri riprendono i leitmotiv cattolici (il nostro Dio non è monolitico, ma relazionale), dilungandosi poi sull’importanza dell’essere uno per l’altro, ecc…; alcuni si mettono addosso quell’atteggiamento da chi la sa lunga e guardano dall’alto in basso gli altri poveretti che provano ancora a capire: loro hanno ormai raggiunto la saggezza di “chi sa stare nel mistero”.
La verità, a mio parere, è che gli uni come gli altri raggiungono solo il medesimo triste risultato di riuscire a parlare (anche per molti minuti) senza dire nulla; senza cioè che nulla di ciò che asseriscono tocchi minimamente la vita della gente che li ascolta (e nemmeno la loro).
Pare che Einstein dicesse: “Non hai capito davvero qualcosa finché non sei in grado di spiegarla a tua nonna”.
Ecco: la Trinità proprio non sappiamo spiegarla alle nonne (e nemmeno ai nipoti).
Così, come pacchetto preconfezionato che ci ha consegnato la storia, è proprio scarico, disattivato, inoffensivo come un vulcano spento, innocuo come una bomba disinnescata: ha ancora le sembianze del vulcano o della bomba (suscita ancora timore reverenziale) ma non fa più “bum” (non è più in grado di interpellare).
Questo è il punto.
Già il termine – di terencehilliana memoria – è ostico: non è un vocabolo neotestamentario, rimanda ad una filosofia che oggi non esiste più, cioè ad una filosofia che non dà più l’imprinting al pensare degli uomini di oggi, e poi è una parola troppo compromessa da tutti i discorsi che le sono stati fatti addosso (come purtroppo nel cristianesimo è successo con molte altre parole).
E allora che dire della Trinità?
Innanzitutto che potremmo provare, almeno per un po’, a non chiamarla più così.
A me, ad esempio, pare che suoni diversamente il quesito appena formulato, se posto in termini diversi: non “E allora che dire della Trinità?”, ma “E allora che dire di Dio che dal Nuovo Testamento è presentato come Padre, Figlio e Spirito santo?”.
In secondo luogo, si potrebbe iniziare a pensare a chi sono queste tre Persone, a cosa sappiamo di loro a partire dalla Scrittura, a come pensiamo la loro relazione con noi e a quella tra di loro.
Potrebbe essere utile confrontarsi su immagini tratte dalla vita quotidiana per provare a esprimere qualcosa di difficilmente dicibile per concetti chiari e distinti. L’immagine tradizionalmente più famosa per spiegare la relazione tra Padre, Figlio e Spirito santo è quella del sole, dei raggi e della luce/calore, ma sarebbe interessante che ognuno si s-cervellasse per pensarne di inedite (magari attingendo anche alle realtà nuove che ci circondano).
Tutti esercizi, questi, o escamotage per farci uscire dallo sterile razionalismo in cui a volte andiamo a finire quando iniziamo a pensare alla Trinità, a come può essere che uno siano tre e tre uno e così via…
La rivelazione di Dio, in Gesù, non è avvenuta attraverso un corso di teologia o fornendoci un manuale di metafisica, ma attraverso una storia, cioè un coinvolgimento di tempo, di spazio, di energie, di affetti, di emozioni, ecc…
È da lì dunque che bisogna passare per capire questa rivelazione: non dalle elucubrazioni, ma dalla storia, dalla nostra storia.
La domanda allora potrebbe essere: ma nella mia storia, nella mia vita, che relazione ho con Dio? Come lo penso? E quando lo penso, lo penso come Padre? Oppure dialogo con Gesù? E lo Spirito?
Sono domande che non ci si deve porre con l’ansia di trovare “la soluzione giusta”, non è un’interrogazione per vedere quello che si sa, ma è un’indagine presso se stessi per vedere come già vivo questo rapporto. È da lì che bisogna partire: dalla Parola, dalla storia, dal pensare la Parola, dal pensare la storia.
1 commento
Mi sono sentita sempre a disagio nel pensare alla Trinità. Ma mi hai consegnato una lettura diversa: il mio vissuto, la mia esistenza. La mia trinità. Il mio essere donna. Il mio essere moglie. Il mio essere madre di un uomo e di una donna adulti che camminano nella loro vita. Aggiungo una quarta presenza, essere nonna. È la parte più importante e gratificante. Grazie