Il vangelo di questa domenica racconta una parabola di Gesù occasionata da un invito a pranzo ricevuto da uno dei capi dei farisei. «Notando come [i commensali] sceglievano i primi posti», Gesù disse che, secondo lui, sarebbe meglio mettersi in fondo e aspettare che il padrone di casa ci invitasse ad andare “più avanti”, piuttosto che mettersi in prima fila e fare la figura di essere retrocessi, perché «chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Al di là dell’esempio, mi pare che il senso di queste parole sia quello di imparare a sapersi valutare.
Se, infatti, a volte capita di avere a che fare con persone che si sottovalutano, molto più spesso ci si imbatte in persone che si sopravvalutano…
Ma la parabola non è raccontata “per le persone”, è raccontata per ciascuno di noi. È inevitabile – per come siamo fatti – che, ascoltando la parabola ci vengano in mente persone dell’uno o dell’altro tipo, ma si ascolta veramente il vangelo, se si prova a riferirlo a se stessi.
Dunque, la domanda che ciascuno dovrebbe porsi è: mi so “valutare” correttamente?
Non si tratta di un’operazione facile: ci riesce meglio essere obiettivi guardando gli altri.
Eppure è qualcosa di indispensabile per orientare la propria vita.
Tenendo presente che, quello che Gesù sta proponendo non è un inno all’umiliazione, ma all’essere umili. Nel nostro linguaggio le due cose sono andate quasi sovrapponendosi, ma, in realtà, la parola “umile” deriva da “humus”, cioè “terra”, da cui anche il termine “umano”, cioè “terrestre”.
Non si tratta di abbassarsi a livello dei vermi, ma di prendere coscienza della nostra reale condizione: gli antichi dicevano “a metà strada tra gli animali e Dio”.
In questo modo si possono evitare i due estremi: pensare di essere noi Dio oppure non considerarsi degni di essere umani come gli altri.
Questo vuol dire “essere umili”, sapersi ricollocare nell’esistenza, senza illusorie esaltazioni e senza patologiche umiliazioni.
Ecco perché il discorso di Gesù prosegue con un altro detto, stavolta rivolto al padrone di casa: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti».
Riconoscersi, infatti, umano tra gli umani, ricrea una nuova solidarietà con coloro che, pur essendo umani come noi, tendiamo a considerare inferiori, diversi, meno umani.
Il condividere i pasti, allora, non è più sfoggio della propria ricchezza, della propria ospitalità, del proprio posto nella società, aspettandosi in cambio stima, riconoscenza, contraccambio; ma torna a essere il luogo della comunione, della condivisione di ciò che si ha, del dialogo.
In questo senso, mi sembra di poter dire che è importante che ci siano le mense dei poveri, il dono del cibo per chi non ha i soldi per fare la spesa, ecc…, ma quanto sarebbe più bella una società in cui chi ha da mangiare invitasse a casa sua chi non ce l’ha.