Presentazione del Signore (commento)

Questa domenica cade il 2 febbraio, il giorno in cui nella Chiesa si celebra la festa della Presentazione del Signore al tempio, che è conosciuta anche come la Candelora (perché in questa occasione vengono benedette le candele).

È una ricorrenza che cade 40 giorni dopo Natale e ha letture sue proprie, tanto che – nonostante avessimo ormai iniziato il percorso del tempo ordinario e, quindi, della vita pubblica di Gesù – il vangelo proposto ci fa tornare ai momenti della sua prima infanzia.

Il brano è molto denso e necessita, innanzitutto, di una contestualizzazione.

L’incipit («Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: “Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore” – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore») ci suggerisce che Maria e Giuseppe – trascorsi i 40 giorni dal parto – compiono il (doppio) rito previsto dalla legge mosaica: la purificazione della madre e l’offerta del primogenito a Dio.

Per quanto riguarda la purificazione della madre è interessante un breve excursus.

Per prima cosa va detto che fino al Concilio Vaticano II, la festa della Presentazione del Signore, si chiamava Purificazione della Beata Vergine Maria. In seguito, con la riforma liturgica, si è voluto dare più peso all’altro aspetto della celebrazione, cambiandone anche il nome.

In secondo luogo, va ricordato che la purificazione della donna, 40 giorni dopo il parto – che è un rito che dal mondo ebraico era trasmigrato anche in quello cristiano, dove popolarmente veniva chiamato “quarantina” – aveva un’origine molto antica e funzionale alla tutela della donna stessa e del neonato.

Si trattava, cioè, di poter stare tranquilli a casa in giorni – per entrambi – così delicati.

Come è noto, per favorire l’osservanza e la diffusione delle norme igienico-sanitarie, nell’antichità si ricorreva alla loro sacralizzazione.

La spiegazione sacra che era stata data al rito della purificazione della madre era che – essendo stata a contatto col sangue, cioè con la vita, con il sacro – ella non necessitava di svolgere altre pratiche liturgiche per 40 giorni: cioè, poteva stare tranquilla a casa col bambino.

Solo in un secondo momento, questa spiegazione è stata interpretata moralisticamente.

[Per un approfondimento della questione circa il rapporto tra sacro e impurità, rimando a R. La Valle, Se questo è un Dio].

Per quanto riguarda, invece, il rito della presentazione al tempio dei primogeniti, si trattava sostanzialmente dell’evoluzione della pratica di consacrare le primizie agli dei, che nell’Israele antico si era strutturata nel riscatto del primogenito (che secondo la legge di Mosè è di proprietà di Dio, cfr. Es 13,2.11-16), con 5 sicli.

In realtà, questi due riti non vengono narrati nel brano di vangelo.

Ci viene solo detto che Maria, Giuseppe e il bambino erano a Gerusalemme per quel motivo (peraltro, va ricordato che non era necessario recarsi al tempio per compiere questi riti).

Questa situazione diventa l’occasione per raccontare due incontri: quello con Simeone e Anna.

Entrambi hanno lo scopo di evocare l’identità, la missione e il destino di Gesù.

Siamo, infatti, all’interno del cosiddetto “vangelo dell’infanzia di Luca”, dunque in una sezione – tra le ultime probabilmente a essere state scritte – che ha di mira la presentazione teologica del protagonista del vangelo, più che la narrazione cronachistica di fatti realmente accaduti.

Ciò che Simeone e Anna prefigurano con le loro parole e, in generale, col modo di relazionarsi alla famiglia di Nazareth, è che questo bambino è il messia – in greco “Cristo”, cioè “unto”, “scelto”, “eletto” – («Lo Spirito Santo aveva preannunciato [a Simeone] che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore» / «[La profetessa Anna] si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme»); che sarà un messia salvifico – tant’è che il bambino si chiama “Gesù” = Dio salva – («Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza»); che sarà un messia con un messaggio non scontato e, perciò, non facile da accogliere («egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te [Maria] una spada trafiggerà l’anima»).

Non si può non condividere la reazione di Maria e Giuseppe: «Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui», anche perché – dopo una presentazione del genere – ci si aspetterebbe chissà che cosa.

E, invece, la conclusione del brano è questa: «Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui».

Niente effetti speciali… niente cose particolari…

Semplicemente un bambino che cresce nel suo paese.

Il contrasto è molto forte e vuole portare il lettore a porsi la domanda: ma chi è costui?

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