Non abbiamo ancora fatto in tempo a prendere confidenza con il tempo ordinario, appena ricominciato, e con il vangelo di Matteo, che la liturgia ci fa fare un passo indietro e tornare ai primi giorni della vita di Gesù.
Domenica infatti si celebra la festa della presentazione del Signore al Tempio, che avveniva 40 giorni dopo la nascita e che fa riferimento ad un episodio narrato dall’evangelista Luca.
I riti dell’iniziazione di un bambino ebreo erano infatti la circoncisione (8 giorni dopo la nascita) e – dopo 40 giorni (che era il tempo per la purificazione della madre) – il rito del riscatto del fanciullo, con – appunto – la presentazione al Tempio e il sacrificio di una coppia di tortore o due giovani colombi.
Innanzitutto una parola sulla “purificazione della madre”, che è una prassi che anche il cristianesimo aveva ripreso, con il nome popolare della “quarantina”, cioè 40 giorni dopo il parto, in cui la donna che aveva partorito non poteva andare in chiesa e vi veniva riammessa previa la benedizione del sacerdote.
Questa prassi aveva radici antiche e molto belle: dato che chi era in contatto col sangue (che biblicamente rappresenta la vita) era già in contatto con Dio, costui/costei era dispensato dalle celebrazioni religiose. Essendo già in contatto con Dio, non doveva fare i riti che permettevano quel contatto.
Originariamente infatti “impuro” non aveva una connotazione morale e faceva coppia con “sacro”. Chi era “impuro” – cioè a contatto col sangue – era già “sacro”, non aveva bisogno di santificarsi con preghiere e riti.
Solo dal VII secolo a. C. il significato è mutato, moralizzandosi, e “impuro” è diventato sinonimo di “indegno”. Da quel momento in avanti “sacro” ha fatto coppia con “puro” e così la prassi dei 40 giorni dopo il parto, invece che essere un modo per custodire madre e neonato, è diventato un modo per escludere e colpevolizzare le donne (così come per il ciclo mestruale), con la malsana idea che se una donna partoriva oggi, era perché 9 mesi prima aveva fatto qualcosa di “impuro”.
Il cristianesimo ha assorbito questa mentalità già capovolta, aggiungendo il carico di peccaminosità legata al sesso.
Dunque, da una pratica bellissima, che rispondeva all’esigenza fisiologica di proteggere una donna che aveva appena partorito e i primi passi così fragili nella vita dei neonati, una pratica che metteva Dio dalla parte di chi andava custodito, si è passati ad una prassi che colpevolizzava la donna e metteva dio nella posizione arcigna di chi giudica male il concepire un figlio.
Purtroppo di distorsioni del genere nella storia delle religioni ce ne sono molte.
Ad ogni modo, tornando al vangelo, quello che ci viene presentato è ciò che nella prassi ebraica avveniva alla fine di questi 40 giorni: il rito del riscatto del primogenito. Al centro del testo però non è il rito, che infatti non è raccontato, ma i due incontri che la famiglia di Nazareth fa al Tempio: quello con Samuele e quello con Anna.
È l’immagine di due anziani che esultano nell’anima nel vedere quel bambino e che – in qualche modo – sentono di poter lasciare la vita (che per loro si è fatta ormai breve) in maniera pacificata: hanno visto un compimento.
Si potrebbe dunque dire che all’opera, nel testo, ci sono come due tensioni, un’ombra di morte e lo zampillare della vita. Sono le stesse tensioni che abitano le nostre giornate… a noi decidere a cosa dare credito.