Le parole del vangelo di questa domenica sono tratte dal cosiddetto “Discorso missionario”, il secondo dei cinque grandi discorsi all’interno dei quali l’evangelista Matteo ha organizzato il materiale che aveva a disposizione riguardo agli insegnamenti di Gesù.
L’invito che Gesù fa ai suoi discepoli di parlare apertamente è, dunque, riferito all’invio in missione: dopo aver annunciato che il loro percorso sarà pericoloso (Ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi) e metterà a repentaglio la loro incolumità (Vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle sinagoghe), Gesù propone di non aver paura (Non li temete […] non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo) perché se anche il loro corpo perisse, chi lo uccide non ha potere sulla loro anima.
Il riferimento al corpo (che perisce) e all’anima (che non muore) non deve immediatamente farci precipitare nel dualismo corpo-anima di matrice greca, che purtroppo ha impregnato il cristianesimo fin dai primi secoli della sua esistenza.
Qui Gesù sta piuttosto dicendo che c’è qualcosa per cui vale la pena morire.
Ai nostri giorni, questa affermazione può risultare esagerata, iperbolica… Chi di noi, oggi, sarebbe disposto a morire per ciò in cui crede?
Ma non è sempre stato così e non è così dappertutto…
Basti pensare alle giovani e ai giovani dell’Iran o alle nostre partigiane e ai nostri partigiani…
La domanda è se è proprio vero che oggi, da noi, sia così assurdo pensare di dare la vita per qualcosa / qualcuno.
Il problema – a mio avviso – non è infatti tanto chiedersi cos’è quel qualcosa (o chi è quel qualcuno) per cui saremmo disposti a dare la nostra vita (perché, forse, così su due piedi, la paura di morire ci renderebbe poco lucidi e non ci verrebbe in mente nulla/nessuno); il punto è renderci conto che solo se c’è qualcosa / qualcuno per cui vale la pena morire, allora c’è qualcosa / qualcuno per cui vale la pena vivere, cioè dare la vita…
L’invito di Gesù non è, dunque, quello di disprezzare la propria esistenza al punto da sacrificarla, tanto vale poco… Al contrario, l’invito di Gesù è quello di vivere così intensamente le proprie relazioni, le proprie passioni, le proprie speranze da arrivare a essere disposti a dare la propria vita per loro.
Ai suoi discepoli diceva che il qualcosa / qualcuno per cui valeva vivere (e, quindi, morire) era la sua parola, lui stesso.
Detta così, può sembrare l’affermazione di un manipolatore narcisista, che si ritiene così importante da avere una cerchia di adepti pronti a morire per lui…
Noi sappiamo che non è così (tant’è che andrà a finire che sarà solo lui a morire per loro), però, è importante capire: perché Gesù riteneva che la sua parola e la sua persona fossero qualcosa / qualcuno per cui valesse la pena vivere e, quindi, morire?
Perché se ascoltiamo il contenuto della sua parola e guardiamo a come lui ha giocato la sua libertà storica, scopriamo che ciò per cui vale la pena vivere (e quindi morire) è la costruzione di un mondo migliore (l’avvento del Regno), di una realtà dove prevale la logica dell’amore su quella della sopraffazione, quella della fraternità su quella della competizione, quella della cura su quella dell’abbandono…
Un’avventura che, in effetti, invoglia a dedicarci la vita.