Il vangelo di questa quarta domenica di quaresima è tratto dal vangelo di Giovanni e in particolare dal famoso discorso tra Gesù e Nicodemo che si snoda nel capitolo 3.
Il testo è stato scelto per questo periodo di preparazione alla Pasqua perché contiene dei chiari riferimenti alla morte di Gesù («bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo»).
Queste notizie anticipate sulla fine non sono dovute – è sempre bene ricordarlo – al fatto che gli evangelisti fossero degli indovini che conoscevano “in anticipo” le cose prima che accadessero, ma al fatto che i vangeli sono stati scritti dopo che la vita di Gesù si era conclusa (e non durante).
È alla luce di quello che hanno visto (di tutta la parabola della vita di Gesù) che – a distanza di qualche decennio – hanno voluto scrivere la loro testimonianza di fede.
E a distanza il dato di fatto che non potevano non rilevare era che ciò che a loro (evangelisti, discepoli, credenti) sembrava la cosa più bella che potesse capitare all’umanità (la rivelazione fattaci da Gesù sull’identità solo buona di Dio), da molti era stata rifiutata o ignorata («la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce»).
Questo è il punto.
Gli uomini amano più le tenebre.
Anche a fronte del farsi conoscere di Dio, del suo farsi conoscere come padre/madre e non come padrone, del suo rivelarsi come relazione d’amore e non come rapporto di sottomissione, gli umani hanno preferito e preferiscono lasciar perdere, non crederci, continuare ad agire seguendo altri riferimenti: l’egoismo, il “salvarsi da soli”, il pensare loro a loro stessi, il non fidarsi di mettere la propria vita nelle mani altrui, il non affidarsi a qualcuno che non siano loro stessi.
È a partire da questa logica che si dipana poi anche il modo di relazionarsi agli altri: se la mia vita non è nelle mani di Qualcun altro, se sono io il riferimento unico e ultimo della mia esistenza, gli altri non possono che essere una minaccia o, nel migliore dei casi, non possono che essere pensati come funzionali a me, al mio benessere, al mio esistere, al mio io.
Io… io… io… Mio… mio… mio…
Ma – in ultima analisi – seguendo questa logica anche il rapporto con se stessi diventa mortifero: chi non si fida/affida all’altro (che sia Dio o qualche essere umano), chi non decide di “consegnarsi” fino in fondo a qualcun altro, non può sperimentare quella pienezza che solo la com-pagnia può dare e rimane solo, radicalmente solo, con un se stesso di cui non sa che fare.
Ma allora vuol dire che chi non crede a Dio, chi non è cristiano, non troverà mai la salvezza, la pienezza della vita, la com-pagnia?
No, non è questione di appartenenza religiosa, ma di scelta di fondo: vivere nella dimensione della fiducia (fiducia in Dio, nella vita, nella bellezza, nella bontà, nella giustizia, nell’essere umano, negli altri umani…) oppure vivere nella s-fiducia, cioè nella paura (di Dio, della vita, …, degli altri…).
Ci sono infatti persone non religiose capaci di una fiducia nella vita di cui tanti credenti sono sprovvisti, perché impauriti, diffidenti, delusi.
Ma io credo che per quanto siamo stati feriti, sia sempre indispensabile (pena una vita tenebrosa) riscommettere sulla fiducia e – come canta Vecchioni – credere e amare «come se non avessi mai creduto, come se non avessi amato mai». Sempre alla ricerca di una nuova (o rinnovata) compagnia.