Il brano di vangelo di questa domenica è molto avvincente e coinvolgente (come era stato quello di settimana scorsa con la samaritana): l’evangelista riesce a “tirarci dentro” la scena e a farci sentire spettatori diretti, come se i fatti si svolgessero davanti ai nostri occhi.
Sono in particolare due gli aspetti su cui vorrei soffermarmi: innanzitutto le parole iniziali di Gesù e poi l’evoluzione della fede del cieco.
«Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio».
Nella mentalità di allora (come si evince anche da quanto dicono alla fine i Giudei: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?») la malattia/disabilità era legata al peccato. Se qualcuno aveva un handicap o gli capitava una disgrazia era perché lui o chi per lui (i genitori, la famiglia) avevano peccato. La disabilità, la malattia, le disgrazie, la povertà erano considerate punizioni di Dio.
Oggi fortunatamente non è più così (nessuno di noi si sognerebbe di attribuire la nascita di un figlio disabile alle colpe dei genitori), anche se non è del tutto estirpata l’idea che Dio c’entri qualcosa con le sciagure che capitano alle persone (quante volte si sente dire “Signore, perché proprio a me?”, come se una malattia o un incidente dipendessero – appunto – dalla volontà di Dio).
Ecco, le parole di Gesù vanno proprio a rompere questo legame “malattia – peccato – punizione di Dio”: Gesù è colui che ci ha fatto conoscere chi è Dio e una delle cose più potenti che ci ha rivelato su di lui è che non punisce, contrariamente a quanto l’umanità ha sempre pensato e, ahimè, continua a pensare. Dio non punisce, Dio non è colui che infligge il male, nemmeno a chi se lo merita, tanto meno a chi non se lo merita affatto!
E ogni volta che esplicitamente o implicitamente noi rimandiamo invece a questa idea che sia lui l’autore del male (foss’anche nella maniera piissima di offrirsi come vittime della sua ira al posto di qualcun altro), stiamo rendendo culto a un dio che non è quello che ci ha fatto conoscere Gesù.
Perché il Dio di Gesù è quello che libera dal male, non quello che lo infligge, tant’è che le opere di Dio che Gesù mostra non sono mai apportatrici di male (non c’è nessun miracolo in nessun vangelo in cui qualcuno di sano che incontra Gesù se ne va malato o menomato!). Sono piuttosto, le sue, azioni di liberazione dal male, sono guarigioni, come nel caso del cieco nato, il quale prima e sopra tutti (essendo coinvolto di persona) coglie la portata della rottura del legame peccato – punizione – disabilità.
Il suo è un percorso bellissimo, perché molto “terra terra”. Non fa filosofie o voli pindarici, dice semplicemente ciò che gli è successo, ciò che ha “visto”, ciò che è capitato alla sua carne: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista».
Interrogato dai farisei, ripete: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo».
Quando viene interpellato, nel bel mezzo del dibattito su chi possa essere uno che fa una cosa del genere (non può essere un peccatore, perché «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?») di sabato («Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato»), lui, entusiasta, esclama: «È un profeta!».
Dopo la convocazione dei genitori e la presa di posizione dei Giudei («Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore»), la sua risposta è di nuovo di una linearità e semplicità disarmanti: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo».
Ma i Giudei non sono disposti a guardare in faccia la realtà e preferiscono piegarla alle loro teorie e perciò lo incalzano di nuovo: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Forse vorrebbero che sotto la pressione psicologica della loro disapprovazione e la paura di essere espulso dalla sinagoga (cioè espulso dalla comunità, potremmo dire “di essere scomunicato / esiliato”), cambiasse la sua versione. Ma non hanno fatto i conti con l’enormità dell’esperienza che quest’uomo ha vissuto (non solo è tornato a vedere, ma si è tolto di dosso lo stigma sociale del peccatore o figlio di peccatori)! E infatti lui, non solo non cede, ma, vincendo ogni paura, diventa quasi canzonatorio: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?».
I Giudei reagiscono, lo insultano, si proclamano autentici credenti («Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè!) e cercano di screditare Gesù, proprio in forza di questo loro prestigio religioso: «Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia».
Ma il cieco non si fa intimidire e lancia la sua stoccata finale (che gli costa la scomunica): «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla».
«E lo cacciarono fuori».
«Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”. Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Lo hai visto: è colui che parla con te”. Ed egli disse: “Credo, Signore!”».
Tutti noi nei vangeli “abbiamo visto” chi è Gesù e chi è il Dio che egli ci rivela: non facciamo l’errore di piegare la verità alle nostre teorie religiose, alle nostre paure, alle nostre proiezioni.
1 commento
Grazie Chiara, in questi tempi bui le tue parole illuminano la nostra mente .