Il testo di vangelo che la Chiesa ci propone per questa quarta domenica di Pasqua non consiste in un ulteriore racconto di apparizione del risorto, ma è tratto dal capitolo 10 di Giovanni, quindi – nella narrazione – da un momento in cui Gesù è ancora in vita.
Eppure, il brano scelto è collocato in una domenica di Pasqua e – quindi – è ritenuto in grado di farci riflettere proprio sulla risurrezione.
Come è possibile?
Innanzitutto, va ricordato che i vangeli sono stati scritti dopo la risurrezione di Gesù e quindi ogni loro pagina rivela la fede in Gesù risorto.
In più, questo testo in particolare contiene già un afflato pasquale.
Vediamo in che senso.
La narrazione ruota attorno al confronto tra il mercenario e il pastore.
Noi solitamente usiamo la parola mercenario per riferirci a chi va a fare una guerra non per un ideale, ma perché stipendiato, pagato per fare la guerra, appunto. In realtà nell’accezione neotestamentaria il termine non è riferito ai soldati, ma a chi fa un lavoro dipendente.
Il paragone perciò è fatto tra un pastore proprietario delle pecore e un custode del gregge dipendente.
Il primo elemento che emerge è, dunque, quello dell’attaccamento: al mercenario non importa niente delle pecore, al pastore invece sì («Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me»).
È da questa differente relazione originaria tra il pastore e le pecore che scaturisce il diverso comportamento tra il pastore e il mercenario: nel momento del pericolo, il mercenario abbandona le pecore, mentre il pastore non le abbandona e, anzi, è disposto a dare la vita per la loro salvezza: «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore».
In questa espressione (ripetuta diverse volte nel testo) è visibile in maniera chiara un riferimento alla passione e morte di Gesù.
Da ciò nasce (come di fatto era accaduto) un’“affiliazione” delle pecore al pastore: «Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge».
Dalla vicenda storica di Gesù, dal suo dare la vita (il giorno della sua morte, ma ugualmente anche ogni giorno della sua vita), nasce una comunità, che è unica: formata dalle pecore che si conoscono (che fanno parte dello stesso recinto) e da quelle che lui solo conosce («ho altre pecore che non provengono da questo recinto»).
Questa precisazione vuole indicare che – legate a lui – ci possono essere anche “pecore” che sono “fuori dal nostro recinto”, a sottolineare come chi è membro del gregge non è questione che spetti dirimere alle pecore.
Ciò che fa di una pecora, cioè – fuor di metafora – ciò che fa di una persona, una “pecora/persona di Gesù” è la relazione con lui.
Una relazione con lui che è possibile proprio perché – anche dopo la sua morte – Egli rimane “fruibile”: «Io dò la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la dò da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo».
È questo il riferimento alla risurrezione che rende il brano odierno particolarmente adatto per una domenica di Pasqua.
Ma il discorso non è ancora concluso, perché il rapporto tra Gesù risorto e ciascuna delle sue pecore, non si esaurisce in un rapporto a due, ma si apre in una duplice direzione:
- Da un lato – come già emerso – la relazione si apre alla comunità: pastore-pecora-gregge;
- Dall’altro, si apre a una fondazione ancora più originaria, quella con il Padre: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e dò la mia vita per le pecore […] Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
La relazione personale con Gesù risorto sulla quale in queste settimane del tempo di Pasqua stiamo provando a ragionare non si esaurisce in una dinamica duale, ma si dilata verso Dio e verso gli altri / le altre.