Il vangelo di questa domenica è molto breve: sono solo quattro versetti.
È tratto dal capitolo 10 del vangelo di Giovanni e, in particolare, dall’episodio legato alla festa della Dedicazione del Tempio di Gerusalemme.
Come sappiamo, il vangelo di Giovanni (differentemente dai sinottici che raccontano la vita pubblica di Gesù come un percorso che parte dalla Galilea e finisce in Giudea) organizza il materiale che ha a disposizione legandolo alle festività ebraiche.
Pertanto, nel Quarto vangelo, Gesù va e viene dalla Galilea alla Giudea più volte, salendo a Gerusalemme in diverse occasioni.
Quella in cui Gesù avrebbe pronunciato le parole che ascoltiamo questa settimana, fanno riferimento alla festa della Dedicazione: «Ricorreva allora la festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone» (Gv 10,22-23).
Proprio lì «i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: “Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente”» (Gv 10,24).
La questione dunque è l’identità di Gesù, chi lui sia… e soprattutto se Egli sia il messia oppure no.
La risposta di Gesù è meno elusiva del solito: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me» (Gv 10,25).
Ma perché i Giudei non credono alla parola di Gesù e nemmeno alle sue opere?
«Voi non credete perché non fate parte delle mie pecore» (Gv 10,26).
Ed è proprio a questo punto che Gesù prosegue con i versetti che la liturgia ci propone oggi.
Chi sono le sue pecore?
«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre.
Io e il Padre siamo una cosa sola».
Sono solo quattro frasi, ma di una densità tale che ciascuna meriterebbe una trattazione a parte.
Cercando di sintetizzare e dare solo qualche spunto di riflessione:
«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono».
Chi sono dunque le pecore di Gesù? Sono coloro che ascoltano la sua voce e lo seguono. Lui le conosce.
Questa affermazione non va presa in senso riduttivo: le sue pecore non sono solo i cristiani o solo i cristiani praticanti. Ma sono tutte le persone raggiunte (e smosse) nell’interiorità dall’amore.
«Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano».
Questa è l’affermazione che fa sì che questo testo venga letto nelle domeniche del tempo di Pasqua: è la promessa di Gesù che la vittoria sulla morte non riguarda solo lui, ma anche le sue pecore.
Si tratta di una promessa vigorosa («nessuno le strapperà dalla mia mano»), fondata sul fatto che:
«Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre».
La promessa di Gesù è dunque che le sue pecore, cioè tutte le persone raggiunte (e smosse) nell’interiorità dall’amore, non solo sono nelle sue mani, da cui nessuno le strapperà, ma – se questo ancora non bastasse – sono nelle mani di suo Padre, che è più grande di tutti. «Nessuno può strapparle dalla mano del Padre».
Questa comunanza di mani, da cui nessuno può strapparci, è dovuta al fatto che Gesù e il Padre sono una cosa sola: «Io e il Padre siamo una cosa sola».
Questa “cosa sola” che noi abitualmente chiamiamo Dio, è più grande tutti: nessuno e niente è così forte da strapparci dalle sue mani.
Questa è l’annuncio pasquale.