L’incipit del vangelo di questa domenica risulta un po’ tranchant: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me».
Perché mai – ci viene da chiederci – dovrebbero essere messi in concorrenza l’amore per i nostri genitori e/o per i nostri figli e le nostre figlie e quello per Dio?
Per capire il senso di questa affermazione, è importante collocarla all’interno del suo contesto, innanzitutto, non omettendo – come fa invece la liturgia – la frase precedente.
Siamo sempre all’interno del discorso missionario, Gesù sta facendo prendere coscienza ai suoi discepoli e alle sue discepole che l’annuncio del Regno non sarà una passeggiata, ma che incontreranno numerose resistenze, persecuzioni, violenze… Anzi, i dissensi, le prese di posizione, le spaccature avverranno all’interno delle loro stesse famiglie: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa».
È proprio a questo punto che il vangelo prosegue con la frase che abbiamo sentito in apertura: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me».
Cosa vuol dire tutto ciò?
Contrariamente a quanto spesso si lascia intendere, il messaggio di Gesù non è un generico “vogliamoci bene”, “va tutto bene”, una pacca sulla spalla e via… L’annuncio teologico di Gesù (cioè il volto del Padre che egli ha rivelato), le conseguenze antropologiche di questa visione teologica (cioè il modo di pensare / essere / agire l’umano proposto da Gesù) e, a seguire, la sua proposta esistenziale (la mentalità, lo stile di vita, il modello relazionare che Gesù prospetta) sono così dirompenti da spaccare l’uditorio.
C’è chi si innamora di un Dio così, di un’idea di essere umano di quel tipo, di un progetto di vita in quella prospettiva, c’è chi invece ne è scandalizzato, chi lo ritiene una buffonata per illusi/e, chi ne ride con disprezzo.
E, infatti, per i primi cristiani e le prime cristiane fu proprio così: spesso venivano scacciati/e di casa, considerati/e appartenenti a una setta eretica o deviata, addirittura condannati a morte per blasfemia.
A quei tempi eravamo noi la minoranza perseguitata e guardata con sarcasmo e sdegno…
Ecco, allora, che il discorso di Gesù prende senso ed è un invito a resistere («Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà») e a creare una comunità solidale, in cui – fra reietti/e – trovare casa («Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa»).
Poi è passato il tempo… il Cristianesimo è diventato la religione dell’Impero; il mondo civile per tanti secoli ha coinciso con la Cristianità… altri sono diventati la minoranza, i diversi, quelli da disprezzare o guardare con sufficienza… e come cantava De André in Laudate hominem «Il potere che […] uccideva nel nome di un dio, […] nel nome di quel dio si assolse. Poi chiamò dio quell’uomo e nel suo nome nuovo nome altri uomini uccise».