«Che cosa devo fare?».
È una domanda che tante volte ci siamo posti/e…
O che altri/e, in diverse occasioni, ci hanno rivolto…
«Che cosa devo fare?».
È la domanda della vita… di fronte alle grandi scelte… ma è anche la domanda della vita… nella sua quotidianità.
«Che cosa devo fare?».
È una domanda che anche Gesù si è sentito rivolgere.
Lui – considerato un maestro di vita – è una persona a cui viene spontaneo chiedere.
«Che cosa devo fare?».
Gesù però non risponde direttamente, rimandando che gli ha posto la domanda a cercare da solo la risposta. E a cercarla in un posto preciso: nella Legge, cioè nella parte principale della Bibbia ebraica (quella che corrisponde al Pentateuco cristiano – i primi 5 libri della Bibbia).
Lo rimanda lì perché quello è il cuore della religiosità ebraica e perché il suo interlocutore è un esperto della Bibbia, è infatti un dottore della Legge.
Non per niente, quello coglie subito la risposta corretta, il centro della questione. «Che cosa devo fare?», «Che cosa sta scritto nella Legge?», «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso».
Ma questa formulazione lascia aperto un dubbio: «Chi è mio prossimo?».
Capito, cioè, che il da farsi è amare Dio e amare il prossimo, come posso sapere chi è il mio prossimo?
Ecco che si apre la risposta di Gesù, che più che una vera e propria risposta diretta è il racconto di una storia, una parabola, quella del buon Samaritano.
È la vicenda di un malcapitato che, caduto nelle mani dei briganti, viene derubato, percosso e lasciato mezzo morto per strada. Nessuno lo aiuta: non il sacerdote, non il levita (entrambe figure importanti della gerarchia religiosa ebraica, che potremmo equiparare a un prete e a un seminarista cattolico).
Chi si ferma è invece un Samaritano, una persona malvista dalle persone praticanti (potremmo equipararlo oggi a una persona che – pur facendo parte del medesimo ambito culturale – non rispetta gli stessi precetti religiosi. L’equivalente, nella nostra società, di molte persone non in linea con la dottrina della Chiesa cattolica: un protestante? Un divorziato? Una persona omosessuale? Vedete voi l’esempio che più vi sembra consono). In ogni caso, qualcuno a cui l’immaginario collettivo cattolico medio non darebbe nessun credito come modello da seguire.
Invece Gesù sceglie, come protagonista positivo della storia che sta raccontando, proprio una persona che non gode di nessuna considerazione, anzi qualcuno su cui grava un forte pregiudizio negativo.
Costui non solo si ferma, ma mette in atto tutto ciò che vorremmo facessero con noi, qualora ci trovassimo nella medesima situazione del malcapitato: lo vede, ne ha compassione, gli si fa vicino, gli fascia le ferite, lo carica sulla sua cavalcatura, lo porta in un posto sicuro, che possa accoglierlo, paga per lui le spese necessarie.
Insomma… la persona che ognuno di noi vorrebbe incontrare nei momenti di difficoltà.
Terminata la parabola, si giunge all’epilogo del dialogo tra Gesù e il dottore della Legge…
La domanda «Chi è mio prossimo?» ha trovato una risposta: non si tratta di conoscere i criteri per selezionare chi è il tuo prossimo e chi no, ma si tratta di decidere di farti tu prossimo agli altri, alle altre chiunque essi/esse siano.
È una questione di postura: a noi, spesso alla ricerca di capire cosa dobbiamo fare, il vangelo suggerisce la compassione. I malcapitati non sono da cercare con il lanternino, il mondo ne è pieno, purtroppo; si tratta solo di vederli e farsi loro prossimi, sentendo – come fosse nostro – il dolore, la sfiducia, la frustrazione, la disperazione che provano. E mettendo in atto tutto quello che vorremmo gli altri / le altre mettessero in atto per noi, qualora ci trovassimo nella medesima situazione.
«Che cosa devo fare?», dunque.
Abitare questa terra con la postura interiore della compassione: pronto/a a farmi commuovere dalle sofferenze altrui e ad attivarmi per alleviargliele.