Nel vangelo di Giovanni è centrale la figura del testimone.
Anzi, il vangelo stesso, per Giovanni, è una testimonianza.
A livello dei personaggi che vi compaiono, il ruolo del testimone è svolto, innanzitutto, dal Battista, mentre nella seconda parte dell’opera, questa funzione viene presa dal cosiddetto “discepolo amato”.
L’evangelista Giovanni scrive a una comunità di provenienza giudaica e perciò ha lo stesso problema di Matteo, cioè sottolineare la subalternità del Battista a Gesù.
Nel testo questa intenzione è evidente, ma la cosa forse più interessante è la sottolineatura della non conoscenza di Gesù da parte del Battista.
Questo elemento è attribuito anche agli astanti. Nel brano precedente, infatti, il battezzatore dice: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete» (Gv 1,26).
Il fatto che Giovanni Battista non conoscesse Gesù contraddice quanto emerge dai sinottici e, dunque, questo dato ha forse una valenza diversa dalla “conoscenza” intesa nel senso comune.
Ciò che né lui, né gli altri conoscono non è tanto Gesù in se stesso, ma la sua identità profonda, quella che – stando a come l’evangelista narra l’episodio – si rivela al Battista con il segno dello Spirito che discende come una colomba dal cielo e rimane su di lui: «Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo».
Ma non solo: «Questi è il Figlio di Dio», «L’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!».
Potremmo dire che in questi pochi versetti, l’evangelista Giovanni condensa in nuce tutto quello che chi leggerà l’intero vangelo scoprirà circa l’identità profonda di Gesù.
Vale la pena, quindi, soffermarsi su questi titoli cristologici.
Innanzitutto, Gesù è colui che immergerà nello Spirito di Dio. L’immagine dell’immersione è significativa, perché ciò in cui ci si immerge è qualcosa che entra a far parte di noi. Gesù, dunque, è venuto a farci coinvolgere intimamente con Dio.
In secondo luogo, Gesù è chiamato l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo. Qui bisogna fare attenzione al singolare. Giovanni non parla dei peccati, al plurale, ma del peccato. La domanda allora diventa: Qual è il peccato del mondo? Qual è, cioè, la radice di tutti i peccati al plurale? Più radicalmente ancora – qual è il discrimine per chiamare peccati i nostri peccati?
Non voglio dare io la mia risposta, per non condizionare la riflessione di ciascuno. Indico solo un metodo: elencando tutti i peccati (al plurale) che abbiamo incontrato nella nostra vita, qual è la loro radice comune?
Infine, Gesù è chiamato “Figlio di Dio”.
L’evangelista Giovanni scrive quando ormai tutti gli altri evangelisti avevano scritto già da qualche anno. Conosceva i testi dei sinottici e la fede della Chiesa che ormai andava consolidandosi. Egli, dunque, mette in bocca al Battista un titolo cristologico che ormai la comunità ha fatto suo. Un’identificazione ormai acquisita.
Ma di cosa si tratta?
Il rischio, per noi, che veniamo tanti secoli dopo è quella di prendere solo il risultato del loro percorso, evitando di fare a nostra volta la strada che porta a quella acquisizione.
Cosa significa riconoscere in Gesù, un uomo in carne e ossa, l’identità di Figlio di Dio? Quella relazione speciale e unica che lo colloca da sempre nell’intimità con Dio?
Solo indagando queste domande potremo capire la portata della sua venuta tra noi e della sua rivelazione del Padre/Madre Dio.
Abbiamo davanti un anno, ma è bene partire da subito con le domande giuste e la corretta postura interiore.