I racconti delle apparizioni di Gesù risorto possono essere letti almeno in tre modi: o come resoconti storici di ciò che è accaduto, o come narrazioni teologiche scritte per far accedere chi non c’era all’esperienza della fede nel risorto, o con una prospettiva esistenziale che indaga cosa abbia voluto dire per i discepoli credere che Gesù fosse risorto.
Se li si intende come resoconti storici, non serve altro che leggerli nel loro svolgersi e, in questo caso, ripercorrere i fatti così come sono narrati: il viaggio verso Emmaus, l’avvicinarsi di Gesù in persona, il dialogo tra lui e i discepoli, il gesto di Gesù di fare come se dovesse andare oltre, la richiesta dei discepoli di restare, lo spezzare il pane, il riconoscimento, la sparizione, il ritorno a Gerusalemme…
Se li si interpreta come narrazioni teologiche, ciò che va ricercato sono quei passaggi che permettono il riconoscimento del risorto: le Scritture, la premura per lo straniero, lo spezzare il pane… da cui la Chiesa ha fondato i pilastri della sua identità: la Bibbia, la carità, il sacramento dell’eucaristia. I “mezzi” – anche per chi non c’era – per accedere alla relazione col risorto.
Una prospettiva esistenziale, che non esclude le altre, prova invece a guardare all’esperienza vissuta da questi discepoli: è quella che vorrei provare a delineare oggi.
Innanzitutto la situazione iniziale: si tratta di persone che hanno vissuto un lutto, un lutto traumatico, che assomma il dolore per la perdita di una persona amata alla disillusione sulla propria vita: quella morte, oltre ad avere i tratti annientanti di ogni morte, ha significato anche la fine di un sogno. La vita al seguito di Gesù è finita e si è risolta in una disillusione.
Credo che solo chi ha visto morire qualcuno che amava e ha visto naufragare il progetto della sua vita, possa capire i sentimenti che abitavano il cuore di questi discepoli e il significato forte di quel «volto triste» di cui scrive Luca.
È il “volto triste” di chi si sente sradicato perché non può più parlare (mai più) con la persona amata, con il punto di riferimento della sua vita, con chi lo istruiva, gli indicava i passi da porre.
È il “volto triste” di chi si sente sradicato perché il progetto nel quale aveva investito tempo, energie, sacrifici, soldi, per il quale aveva cambiato la vita di prima, l’abitazione, le amicizie, i punti di riferimento dell’infanzia e della giovinezza, è miseramente crollato.
Non c’è più lui, non c’è più il suo regno da costruire.
Il loro ritorno a Emmaus spesso è “guardato male”, con biasimo, come se questi due discepoli, a differenza degli altri, avessero rinunciato un po’ troppo presto a tutto, alla compagnia – seppur luttuosa – degli altri seguaci di Gesù.
Io invece credo che quel ritorno sia stato una cosa sensata: quando tutto crolla, o crolli anche tu (è la scelta di Giuda), o l’automa che la morte ti fa essere ti riporta a quei pochi brandelli di esistenza che ti ricordano che non sei già morto anche tu: la casa, la mamma, il paese, le vie che percorrevi da ragazzo, qualche volto conosciuto.
Come scriveva un mio amico, di cui sabato scorso ricorrevano i 10 anni della morte, un lutto è come un’emorragia di vita e allora c’è bisogno di una trasfusione, di re-immettere sangue nell’organismo, di rifar circolare la vita. E i discepoli di Emmaus hanno provato a cercare questo ricircolo di vita a casa loro.
Ma capita qualcosa: secondo la storia, già tre giorni dopo la morte di Gesù, coi tempi del cuore, magari un po’ dopo.
Capita che fuori o dentro di loro fanno un’esperienza che gli fa maturare la consapevolezza che il cuore può tornare ad ardere, per lui, per il suo regno.
Non è tutto finito. Questa è l’esperienza della risurrezione. La vita, il ricircolo della vita, è più forte dell’emorragia interiore procurata dalla morte.
E così il loro ritorno a casa diventa un ritorno a Gerusalemme: tanto tempo prima erano partiti da Emmaus per andare dietro a Gesù, ora stavano tornando a Emmaus perché Gesù era morto, alla fine ritornano ancora indietro.
Non c’è un ritorno giusto e uno sbagliato, sono tutte andate e ritorni alla ricerca di se stessi, del vero sé che si vuole essere, tutte andate e ritorni per inseguire una promessa di vita: la promessa della vita che gli aveva fatto intuire Gesù, quando l’avevano conosciuto; la promessa di ritrovare la vita a casa loro, nella quotidianità dei riferimenti noti, che danno tanta consolazione e quel minimo di sicurezza quando sei annientato dalla morte, ma da essa non riesci a farti annientare del tutto; la promessa di una vita ancora possibile sulla Parola del Maestro, di un regno ancora costruibile nella cura del bisognoso, di una comunione ancora gustabile nello spezzare il pane insieme.
E allora, qualsiasi sia l’andata o il ritorno che stiamo percorrendo, chiediamoci all’inseguimento di quale noi stessi siamo diretti, a quale promessa di vita stiamo dando credito, a quale maestro, a quale regno e a quale comunione stiamo anelando.
1 commento
In questo momento di vuoto non ho direzioni se non l’attesa di qualcosa (di qualcuno?)che mi faccia sentire viva.