In questa seconda domenica di quaresima, la liturgia ci presenta il brano della trasfigurazione.
È un episodio che suscita sempre un po’ di sconcerto, come accade ogni volta che ci si trova di fronte a qualcosa che va oltre l’esperienza quotidiana e ci pone di fronte a una situazione eccezionale.
Lo sconcerto e l’eccezionalità della situazione narrata non devono però scoraggiarci rispetto alla possibilità di stare di fronte a questo testo e provare a capirci qualcosa.
Non dobbiamo cioè farci prendere preventivamente da quel misto di timore e terrore che istintivamente ci viene quando entra in scena Dio, né dalla tentazione (mascherata da devota reverenza) di fare un passo indietro rispetto a un Gesù che ci sembra improvvisamente così poco umano.
Innanzitutto perché – se siamo onesti – ogni vita ha la memoria di qualche momento eccezionale: tutti noi abbiamo avuto momenti eccezionalmente intensi, di particolare presenza a noi stessi, di dialogo profondo con la realtà, di raccoglimento.
Credo che – come per me – anche per voi questi momenti siano stati vissuti altrove rispetto ai luoghi ordinari della vita (in montagna, in vacanza, o semplicemente nella stanza accanto alla vostra) e con non troppa gente intorno (da soli o con pochissimi intimi).
Questo paragone con le nostre esperienze credo possa aiutarci a non allontanare subito l’episodio della trasfigurazione di Gesù, collocandolo nel campo del “divino”, “sovrumano” e dunque per noi incomprensibile, irraggiungibile, alieno.
Gesù – come noi – esce dai luoghi della sua quotidianità (va sul monte), con pochissime persone (Pietro, Giacomo e Giovanni) e vive uno di quei momenti eccezionali che la vita di ciascuno custodisce: un momento di particolare presenza a sé stesso, di dialogo profondo con la realtà, di raccoglimento. Un momento di preghiera, come dice il vangelo stesso.
Attenzione! Non dobbiamo cercare di capire l’esperienza di Gesù a partire dalla nostra idea di preghiera (per cui ridurremmo l’esperienza di Gesù a un “dire le preghiere”, magari in ginocchio), ma dobbiamo capire cos’è la preghiera a partire dall’esperienza di Gesù (un ritirarsi in disparte, raccogliersi, entrare in dialogo con la parte più profonda di sé, dove – direbbe Etty Hillesum – c’è Dio, e uscirne trasformati, trasfigurati, con uno sguardo nuovo su di sé e sulla vita).
Questo è quello che capita a Gesù e che gli evangelisti narrano attraverso l’immaginario del loro tempo: Mosè (la Legge), Elia (i profeti), che discorrono della fine ingloriosa di Gesù («parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme»)… come a dire che Gesù – consapevole che le cose si stanno mettendo male – confronta ciò che sta vivendo con la sapienza del suo popolo, con la parola di Dio, per capire se tutto ciò abbia un senso e quale senso.
L’arrivo della nube e della voce dalla nube (chiari segni della presenza divina, secondo la simbologia di allora) sono la conferma del suo itinerario interiore: la morte di croce non sarà la sconfessione di Gesù, ma la conferma della sua figliolanza, cioè di essere con-forme al modo di amare di Dio Padre (Gesù infatti andrà sulla croce per amore e fedeltà a se stesso, a quel suo essere un amante che ama di un amore che non tradisce, non usa violenza, non è vigliacco, non rilancia il male… e questo è Dio…): «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
In tutta questa vicenda interiore di Gesù, ci sono poi accanto a lui i tre discepoli, che vedono (lo vedono “cambiare d’aspetto”, “conversare con Mosè e Elia”; vedono la nube, sentono la voce), ma capiscono poco («erano oppressi dal sonno» e Pietro, che parla per tutti, «non sapeva quello che diceva»).
Soprattutto reagiscono istintivamente con paura («All’entrare nella nube, ebbero paura»): non hanno ancora ben capito di che Dio è Figlio il loro maestro e che l’esperienza interiore che ha appena vissuto è stata quella della conferma della via dell’amore incondizionato.
Noi siamo più fortunati di loro, perché possiamo guardare a questo evento da lontano, rileggendolo più volte, avendo tutto il tempo per provare a capire… e scoprire – come anche loro hanno poi fatto – che al Tabor Gesù ha ri-scelto (dopo il battesimo al Giordano) di continuare a essere colui che mostrava l’Amore.