In questa seconda domenica di Pasqua, prosegue l’itinerario della comunità di Gesù nella presa di coscienza di ciò che è avvenuto dopo la morte di croce.
Il vangelo è sempre quello di Giovanni che, nell’episodio della settimana scorsa, si era concluso con Pietro e il discepolo amato che – dopo essere corsi al sepolcro per le parole di Maria di Màgdala («Hanno portato via il Signore […] e non sappiamo dove l’hanno posto») e averlo trovato vuoto – erano tornati di nuovo a casa (Gv 20,10).
Il brano odierno inizia con la locuzione «La sera di quel giorno» e, in effetti, il giorno di cui si parla è sempre il medesimo: il primo dopo il sabato (cioè due giorni dopo la morte di Gesù: la domenica di Pasqua).
Questo incipit, tuttavia, non segue immediatamente l’ultimo versetto dell’episodio precedente (v. 10): non è l’undicesimo, bensì il diciannovesimo.
In mezzo, infatti, Giovanni racconta un’altra vicenda che – nella trama narrativa – accade sempre quel medesimo giorno di Pasqua.
Si tratta della prosecuzione della giornata dell’altra protagonista dell’episodio che abbiamo letto la settimana scorsa: Maria di Màgdala.
Lei, a differenza di Pietro e del discepolo amato, non era tornata a casa, ma era rimasta «all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva».
La scena va immaginata e non credo sia difficile, perché molti/e di noi hanno fatto l’esperienza di attardarsi nel cimitero a piangere i propri cari e le proprie care.
In questa situazione, Maria, mentre piange, si china verso il sepolcro e vede due messaggeri (angeli) che le dicono: «Donna, perché piangi?». La sua risposta conferma che la sua infinita tristezza, in questo momento, è legata a quello che lei pensa sia un ulteriore oltraggio al corpo straziato di Gesù, e cioè il furto del cadavere: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto».
Detto questo, si volta e vede Gesù stesso, in piedi, ma non lo riconosce. Lui le chiede: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?»; e lei – pensando che si tratti del custode del giardino – risponde: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo».
A quel punto Gesù la chiama per nome, «Maria!», e lei lo riconosce: «Rabbunì!».
A mio parere questo è uno dei momenti più alti del vangelo di Giovanni: il primo incontro di Gesù risorto con una persona; una donna, che non si dà pace per averlo perso e, in quei frangenti, soprattutto per aver perso il suo corpo da onorare e piangere.
Non vi è un immediato riconoscimento – segno che Gesù è sempre lo stesso, ma qualcosa è cambiato. La sua voce, però, e in particolare la sua voce che la chiama per nome, fa scattare in Maria la consapevolezza che si tratti proprio di lui.
L’evangelista Giovanni ci sta suggerendo che – dopo il sepolcro vuoto – il primo passo verso la presa di coscienza della risurrezione di Gesù sta in un incontro personale, dove ci si sente chiamati per nome.
Da quell’incontro scaturisce poi un dialogo, in cui Gesù annuncia che tornerà presso Dio e che questo è un messaggio che proprio Maria devo portare agli altri (Maria – come si suol dire – diventa apostola degli apostoli).
Maria, infatti, corre dai discepoli e annuncia: «Ho visto il Signore!».
È a questo punto che inizia il brano di vangelo di questa domenica, con quel suo incipit: «La sera di quel giorno» …
… La sera di quel giorno i discepoli stanno ancora «a porte chiuse […] per timore dei Giudei».
Ma Gesù li va a scovare, proprio in quel buco di paura in cui si erano asserragliati: «Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”».
Chissà se dopo l’annuncio di Maria, speravano anche loro di avere un incontro simile al suo; o se non le avevano dato credito, pensando vaneggiasse; oppure se, magari, vedendo come erano andate le cose durante la passione, quell’improbabile incontro li spaventava quanto quello con i Giudei.
Gesù, però, scioglie subito quella paura: «Pace a voi!».
Il secondo passo per prendere coscienza della risurrezione di Gesù è, allora, forse quello di lasciarsi riconciliare da lui, accogliere la sua pace nelle nostre esistenze, che è l’unico modo per diventare a nostra volta portatori di riconciliazione: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Ma c’è un assente: Tommaso.
Tommaso non crede agli altri che gli annunciano: «Abbiamo visto il Signore!».
Egli però ritorna, otto giorni dopo. Stavolta Tommaso c’è. Gesù ripropone il medesimo annuncio: «Pace a voi!». E propone a Tommaso di mettere il dito, guardare le sue mani, mettere la mano nel suo fianco, proprio come lui aveva detto di aver bisogno di fare per credere: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Tommaso, tuttavia, non lo fa e se ne esce con una delle più belle invocazioni della Scrittura: «Mio Signore e mio Dio!».
Il commento finale di Gesù ci mostra un ulteriore passo possibile per accedere alla presa di coscienza della sua risurrezione. È un suggerimento in negativo: non serve vedere e toccare in senso materialistico («Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»); ciò che è necessario è – appunto – credere, cioè dare credito alla sua parola.
Non a caso, il brano termina con un riferimento all’attestazione (cioè al farsi testo scritto di quella sua parola): «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome».
Il percorso è, dunque, tracciato: l’incontro col risorto è un sapersi chiamati/e per nome; un accettare la pace sulla nostra esistenza; un diventare operatori di riconciliazione e un dar credito al vangelo.