Il vangelo di questa seconda domenica di pasqua potrebbe essere suddiviso in 3 parti:
- L’apparizione ai discepoli;
- La vicenda di Tommaso, otto giorni dopo;
- Il finale.
Inoltre, per collocare bene l’episodio è utile ricordare che secondo gli studiosi questa pagina originariamente era l’ultima del vangelo di Giovanni, quindi era la chiusura dell’intero libro.
Il che significa che, nel leggerla, è importante tenere presente questa atmosfera conclusiva, in qualche modo decisiva.
Nella prima parte Gesù risorto appare ai suoi discepoli: «stette in mezzo a loro». In qualche modo è un ritorno, il ritorno di un morto. Di un morto che loro avevano lasciato solo, abbandonandolo nel momento più difficile. Eppure le sue parole non sono di rimprovero: «Pace a voi!» dice incontrandoli. Poi prosegue: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». E dopo aver soffiato, aggiunge: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Rincontrando i suoi discepoli ciò che avviene è dunque innanzitutto una riconciliazione, poi una missione e, infine, una raccomandazione. Il compito affidato è quello di “essere mandati”. Sembra un compito un po’ generico: mandati dove e per fare cosa?
Chiarisce il tutto quel «Come il Padre ha mandato me», cioè come Gesù era stato inviato a far conoscere alle persone chi è Dio, così i suoi discepoli, a loro volta, sono mandati a mostrare il vero volto di Dio, che – come specifica la raccomandazione finale – è innanzitutto colui che perdona.
La risurrezione di Gesù inaugura il tempo in cui ovunque andrà annunciato che Dio è colui che ci guarda con sguardo misericordioso.
Sembra una cosa fin troppo scontata, quante volte abbiamo sentito dire che Dio è buono e ci perdona, ma quante volte abbiamo davvero dato credito a queste parole? Davvero pensiamo che lo sguardo con cui il Signore ci guarda è uno sguardo che ricompone i nostri cocci?
Eppure sapersi guardati così, cambierebbe davvero la vita, perché cambierebbe lo sguardo che abbiamo su noi stessi. Sapersi amati e “guardati bene” dà fondamento/a all’esistenza, come per quei bambini difficili, che istintivamente sgridiamo, biasimiamo, addirittura a volte disprezziamo (per la fatica che ci fanno fare, per la trepidazione che facciano o si facciano del male, per il nervoso che ci suscitano), ma che solo se non si sentono “guardati male”, anzi se si scoprono guardati con un sorriso, accolti e voluti bene, riescono a sbilanciarsi in una relazione che li fonda e, alla fine, li cambia.
Noi, invece, spesso, guardiamo a noi stessi come a quei bambini: ci “guardiamo male”. Ma se ci aprissimo a Chi ci “guarda bene”, con un sorriso benevolente, forse riusciremmo a sbilanciarci in una relazione che ci fonda e ci cambia.
Nel vangelo c’è poi Tommaso. Un altro “guardato male” per secoli, biasimato e addirittura disprezzato per la sua poca fede. Tutti a mettersi istintivamente dalla parte di Gesù e ad additarlo come incredulo. Anche gli altri apostoli, seppur muti in questo brano, li immaginiamo solidali con Gesù, mentre “guardano male” il loro compagno, presto dimentichi di essere stati essi stessi abbandonanti e increduli.
E invece Tommaso, in questo episodio, rappresenta ciascuno di loro e anche ciascuno di noi, così difficilmente convincibili che Gesù sia risorto davvero. Tommaso vuole vedere e ne ha tutte le ragioni: ciò che gli altri gli stanno dicendo («Abbiamo visto il Signore!») è davvero incredibile (cioè qualcosa da non credere, tanto è spropositato rispetto all’esistenza nota).
Noi poi, in particolare, siamo come Tommaso: anche noi non abbiamo visto. E la risposta che Gesù gli dà è un chiaro appello a noi: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Quelli che non hanno visto, siamo noi.
Quest’ultima pagina di vangelo, più che tutte le altre, è scritta proprio per noi, per chi non ha visto.
È la pagina finale, dicevamo, che si conclude proprio con un invito per noi: «perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome».
Il vangelo ci catapulta in quello stesso luogo in cui i discepoli, «mentre erano chiuse le porte […] per timore», hanno incontrato Gesù risorto.
Da quel luogo anche noi dobbiamo uscire con una scelta nel cuore: credere nel Dio che “ci guarda bene” e ci promette la vita oppure no, sapendo però che, per essere davvero una scelta, deve coinvolgere tutto il nostro essere e fondare la vita in un senso o nell’altro; ricordandosi anche che non scegliere o rinviare è comunque una scelta che determina chi siamo.
2 commenti
Grazie Chiara per darci uno spiraglio di luce in questi giorni bui. Uscire dalle nostre paure per entrare nella luce dell’amore del padre è comunque un cammino difficile che coinvolge tutta una vita. Ti abbraccio
Ringrazio tutti quelli che lasciano commenti: mi fa davvero molto bene trovarli, leggerli, pensarli.
Chiara