Domenica inizia la quaresima (40 giorni per prepararsi alla Pasqua) e la liturgia sceglie di inaugurarla con il testo di Marco che parla dei 40 giorni di Gesù nel deserto.
Innanzitutto vanno dette due cose:
1- Spesso questo momento della vita di Gesù è tralasciato, perché sta tra il Battesimo al Giordano e l’inizio della vita pubblica. La tendenza perciò è quella di saltare subito dal momento della scelta di iniziare una vita nuova (battesimo) all’effettivo cominciamento di quella nuova vita (l’avvio della missione di Gesù). Invece – secondo tutti i sinottici – in mezzo c’è un periodo in cui Gesù rimane nel deserto.
2- Mentre gli evangelisti Matteo e Luca delineano ciò che accade nel deserto, specificando le tentazioni cui Gesù è sottoposto, il vangelo di Marco è molto stringato e si limita a dire: «Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano».
Questi due elementi mi portano a scegliere di porre l’attenzione sul “deserto”.
Il deserto palestinese non è fatto di sabbia e dune, ma è un deserto roccioso e questo ci aiuta a immaginare lo scenario. Uno scenario che però evidentemente non è solo ambientale, ma simbolico.
Molto spesso si usa l’immagine “i deserti dell’anima” facendo riferimento a quei momenti o a quelle esperienze di aridità e solitudine che tutti abbiamo provato nella vita.
Ma vorrei provare ad andare al di là delle frasi fatte e sondare un po’ più nel profondo questo stato interiore in cui, a volte, ci troviamo e che – forse – più che un’esperienza intermittente, è una modalità di essere che ci accompagna sempre.
Perché certo “deserto” vuol dire solitudine (e quindi si può far ricorso a questa espressione quando patiamo momenti di particolare isolamento), vuol dire aridità (e quindi possiamo farvi riferimento quando sperimentiamo periodi di “ottundimento della sensibilità”, quando ci manca il piacere di vivere), vuol dire anche povertà (e quindi rappresentare quei frangenti della vita in cui ci mancano le risorse per andare avanti)…
Tutto vero.
Però oggi la parola che più di tutte mi viene da associare a “deserto” è “nudità”: il deserto è l’esperienza dell’essere nudi, denudati da tutto ciò che “normalmente” ci mettiamo addosso per dire chi siamo. “Nudità” mi pare ricomprenda la solitudine, l’aridità, la povertà perché le relazioni, le energie vitali e le risorse che abbiamo fanno parte di “ciò che ci mettiamo addosso” o di “ciò che ci mettiamo attorno” o di “ciò da cui attingiamo” per dire chi siamo.
Ma poi c’è un noi stessi che è spogliato di tutto questo e che ci restituisce la nostra nudità, il come siamo “nudi e crudi”.
È per questo che non credo sia solo una situazione indotta da particolari circostanze della vita, ma un modo di essere che ci abita, in profondità, sempre, continuamente e pervasivamente.
Non a caso i giorni che Gesù sta nel deserto sono 40, numero simbolico, che indica non tanto un’esperienza che dura poco più di un mese, ma una condizione presente per tutta la vita, un modo di essere che accompagna tutta l’esistenza, un noi stessi che sta con noi sempre, anche se non sempre ne siamo consapevoli.
Eppure è un “noi stessi” con cui dobbiamo entrare in contatto, è un “se stesso” con cui Gesù stesso ha voluto entrare in contatto: quel “sé” nudo e crudo che forse spaventa, perché spesso non corrisponde al “sé” ideale, ma dal quale non si può prescindere.
Anche perché il “sé” nudo e crudo, proprio perché nudo, è un “sé” molto esposto, molto vulnerabile: non a caso nel vangelo lo si definisce «tentato da Satana», cioè in balia di tentazioni divisive e/o autodistruttive (“sé contro sé”), di tentazioni di fuga o di scorciatoie (“sé via da sé”), di tentazioni di falsificazione (“falso sé”).
Le domande che ci possiamo fare sono pertanto le seguenti: abbiamo avuto modo di prendere contatto con il nostro sé nudo e crudo? Spogliati di tutto, chi siamo veramente? Che rapporto c’è tra il nostro “sé denudato” e il nostro “io vestito”?