L’11 dicembre del 1925 papa Pio XI istituì la festa di Cristo Re dell’Universo, con l’enciclica Quas primas.
In quell’occasione, la celebrazione fu collocata nell’ultima domenica di ottobre, ma, con la riforma liturgica del 1969, venne spostata all’ultima domenica dell’anno liturgico (la 34°).
Prima che inizi un nuovo avvento (e, con esso, l’anno nuovo della Chiesa), ancora oggi si festeggia, dunque, la solennità di Cristo Re.
Leggere l’enciclica che istituì questa celebrazione – nonostante il linguaggio inevitabilmente lontano da quello odierno – può aiutarci a capire il senso di questa ricorrenza.
Innanzitutto, va detto che nel 1925 era stato indetto un Giubileo, detto “della pace” dopo gli eventi della Prima Guerra Mondiale: si trattava perciò di un Anno santo. Per il pontefice questa diventa l’occasione ideale per l’istituzione di una nuova solennità: «Tutto quello che accadde e si fece, nel corso di questo Anno Santo, degno certo di perpetua memoria, forse non accrebbe l’onore e la gloria al divino Fondatore della Chiesa, nostro supremo Re e Signore?».
Nel 1925, inoltre, ricorreva anche l’anniversario del primo concilio ecumenico, quello di Nicea del 325, in cui era stata definita la divinità di Gesù Cristo: «Ricorrendo, durante l’Anno Giubilare, il sedicesimo secolo dalla celebrazione del Concilio di Nicea, volemmo che l’avvenimento centenario fosse commemorato, e Noi stessi lo commemorammo nella Basilica Vaticana tanto più volentieri in quanto quel Sacro Sinodo definì e propose come dogma la consustanzialità dell’Unigenito col Padre, e nello stesso tempo, inserendo nel simbolo la formula “il regno del quale non avrà mai fine”, proclamò la dignità regale di Cristo».
A partire da queste considerazioni, il papa propone una lettura della sua contemporaneità che egli vede caratterizzata da «tanta colluvie di mali». Quest’ultima dipende, secondo lui, dal fatto che «la maggior parte degli uomini avevano allontanato Gesù Cristo e la sua santa legge dalla pratica della loro vita, dalla famiglia e dalla società».
In particolare, la «peste che pervade l’umana società» sarebbe il «laicismo»: «Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni […] Quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso».
Questo giudizio, indubbiamente di parte, va contestualizzato nella situazione europea dell’epoca (in Italia – ad esempio – stavano per essere approvate le cosiddette “leggi fascistissime”; in URSS era salito al potere Stalin).
La soluzione che il papa propone – in maniera piuttosto anacronistica – è quella di persuadere «i principi e i magistrati» che «si comanda non tanto per diritto proprio quanto per mandato del Re divino»: «Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l’incolumità del loro potere, l’incremento e il progresso della patria».
La speranza è che «l’annuale festa di Cristo Re, che verrà in seguito celebrata, spinga la società, com’è nel desiderio di tutti, a far ritorno all’amatissimo nostro Salvatore», e cioè – concretamente:
- «Col tributare questi onori alla dignità regia di nostro Signore, si richiamerà necessariamente al pensiero di tutti che la Chiesa […] richiede per proprio diritto […] piena libertà e indipendenza dal potere civile, e che essa, nell’esercizio del suo divino ministero […] non può dipendere dall’altrui arbitrio».
- «Di più, la società civile deve concedere simile libertà a quegli ordini e sodalizi religiosi d’ambo i sessi, i quali, essendo di validissimo aiuto alla Chiesa e ai suoi pastori, cooperano grandemente all’estensione e all’incremento del regno di Cristo».
- La celebrazione di questa festa, che si rinnova ogni anno, sarà anche d’ammonimento […] richiedendo […] che la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principî cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell’amministrare la giustizia, sia finalmente nell’informare l’animo dei giovani alla santa dottrina e alla santità dei costumi».
- «Inoltre non è a dire quanta forza e virtù potranno i fedeli attingere dalla meditazione di coteste cose, allo scopo di modellare il loro animo alla vera regola della vita cristiana».
Se i primi due obiettivi – primariamente politici – sono da ascrivere alla situazione storica in corso nella seconda decade del Novecento, il terzo è visibilmente legato a una concezione in qualche modo ancora teocratica del rapporto Stato/società-Chiesa.
L’unico obiettivo di interesse per l’oggi è l’ultimo, che si riferisce alla vita interiore dei/delle fedeli.
A questo proposito, il brano di vangelo di questa domenica è importante non tanto perché contiene l’affermazione di Gesù «io sono re», ma perché essa è pronunciata durante un interrogatorio che si concluderà con la ratifica della condanna a morte di Gesù stesso. Ciò dice molto su quale regalità Egli incarni. Potremmo dire che questo è il vertice di quell’annuncio del Regno che era iniziato nelle prime pagine del vangelo.
La domanda per noi è se, dopo anni di vita cristiana, sapremmo dire cosa intendeva Gesù con la locuzione “Regno di Dio”.