Settimana scorsa, con la festa della Trinità, è ricominciato il “Tempo ordinario”, anche se – come ogni anno – le prime domeniche dopo Pentecoste sono caratterizzate dalla memoria di aspetti solenni della fede cristiana, che ci fanno respirare poco l’“ordinarietà” della vita di Gesù.
Anche oggi infatti la Chiesa ci propone di soffermarci su una di queste solennità, quella del “Santissimo corpo e sangue di Gesù”, cioè sull’altrimenti detta festa del Corpus Domini.
Il testo evangelico ci riporta pertanto all’ultima cena – luogo che abbiamo “visitato” poco tempo fa in quaresima, durante la Settimana Santa.
Ciò su cui siamo invitati a soffermarci è l’“associazione” che Gesù ha fatto del suo corpo con il pane spezzato e del suo sangue con il vino versato.
Il senso di questa “associazione” (termine che metto tra virgolette perché volutamente generico) è stato oggetto di molte discussioni tra i teologi, lungo il corso della storia della Chiesa.
La questione in gioco era precisamente in che senso andasse inteso il legame istituito da Gesù tra il pane e il suo corpo e il vino e il suo sangue: si tratta di una identificazione o di un simbolo?
E in che senso “identificazione” o “simbolo”?
Parole anch’esse oggetto di tante dissertazioni.
Come sappiamo, la linea che ha prevalso è quella della cosiddetta “presenza reale”, spiegata – anche se questa spiegazione non ha il valore di un pronunciamento dogmatico – attraverso la transustanziazione.
Insomma, tante parole complesse per dire che quando – durante la messa – facciamo memoria dell’ultima cena di Gesù, il pane diventa il corpo di Cristo e il vino il sangue di Cristo.
Evidentemente non nel senso di una trasformazione magica (che modifica la fisica e la chimica del pane), ma – appunto – di una vera possibilità di accesso alla comunione col Signore.
Ripercorrere questo dibattito è interessante, non tanto per entrare in tecnicismi che magari ci risultano estranei, ma per capire quali fossero le preoccupazioni in gioco.
Cosa volevano salvaguardare coloro che sostenevano che la consacrazione rendesse reale la presenza del corpo e sangue di Gesù?
Forse una non sottovalutazione di quel gesto?
E quali timori animavano quelli che rifuggivano un realismo esasperato?
Forse il tenere ben distinta la fede dalla magia?
Non porsi queste domande, per noi che abbiamo imparato le risposte preconfezionate prima ancora che ci sorgesse il problema, è rischioso, perché potrebbe significare che non affrontiamo mai le questioni centrali del cristianesimo, rifugiandoci in quello che altri hanno pensato per noi, senza mai farlo diventare “nostro”.
Credo che questo valga per tutto ciò che la fede della Chiesa ci ha trasmesso.
Anche perché è solo ripercorrendo la storia di come si è arrivati alla formulazione di alcuni punti fermi (la storia del dogmi per esempio) che si possono toccare con mano i nodi e le questioni di fondo della fede.
Anche perché il linguaggio con cui si comunica una certa esperienza è sempre figlio del suo tempo (è segnato dall’epoca che lo genera), tanto che le parole “presenza reale” e “transustanziazione”, per esempio, non sono di Gesù, non appartengono al suo mondo e al suo contesto culturale.
Sono parole nate dopo, in un’altra epoca.
Il punto è quindi provare a interrogarsi su cosa ha inteso fare Gesù, che è esattamente quello che hanno fatto i teologi lungo il corso della storia della Chiesa, provando – a loro volta – a trasmetterlo con le loro parole, con il loro linguaggio, con le loro categorie ai cristiani della loro epoca, del loro tempo, del loro mondo.
Solo provando a nostra volta a interrogarci su cosa ha fatto Gesù, su cosa hanno inteso esprimere i compilatori dei dogmi e dei trattati di teologia, su cosa ci ha voluto trasmettere la Chiesa, che anche noi potremo comprendere quegli eventi e provare a dirli (prima di tutto a noi stessi) con le nostre parole, le parole del nostro tempo, della nostra epoca, del nostro mondo.
E così farli nostri.
Perché dire le cose di sempre con il linguaggio di ieri, rischia di farci perdere il senso delle cose.
Come se per insegnare il rispetto nei rapporti familiari, chiedessimo ai nostri figli, nati nel XXI secolo di darci del voi…