Il vangelo di questa domenica ci parla di Gesù che dà da mangiare.
Certo, c’è la straordinarietà della moltiplicazione, ma l’azione centrale su cui focalizzare l’attenzione è il dare da mangiare a chi ha fame.
Non prendiamolo subito come un imperativo morale: dobbiamo anche noi dare da mangiare agli affamati!
Certo, che dobbiamo farlo, ma se lo sentiamo come un dovere ne perdiamo tutta la bellezza e iniziamo a fare tutti i distinguo tra chi se lo merita e chi no…
Concentriamoci invece, per un attimo, sul gesto in sé, sul dar da mangiare a chi ha fame, senza pensare immediatamente che “quelli che hanno fame” sono i disgraziati della terra.
Partiamo dal nostro piccolo: “quelli che hanno fame” siamo noi (più o meno tre volte al giorno). E fin da quando siamo nati, qualcuno se ne è preoccupato.
Dare da mangiare è infatti il primo e più naturale gesto della cura: una mamma, appena partorisce, porta al seno il suo bambino e continua a dargli da mangiare per tutta la vita: quante volte siamo stati nutriti da chi ci ama. È addirittura il gesto in cui gli Ebrei riconoscono la cura di Dio nei confronti del loro popolo: li ha nutriti nel deserto!
Poi – crescendo – siamo stati noi a preoccuparci della fame di qualcun altro… dei nostri compagni, dei nostri figli, dei nostri amici… e abbiamo scoperto quanto è essenziale “portare a casa il pane” e “preparare perché a nessuno manchi il necessario”.
Abbiamo anche scoperto che, non solo è essenziale, ma è anche bello, soddisfacente, gratificante.
Credo che anche Gesù sia stato contento di sfamare tutte quelle persone; lui che non aveva moglie né figli, ha pensato di estendere la sua cura a chiunque gli capitasse tra i piedi, a chiunque la storia gli mettesse sulla strada: i suoi amici, le persone che incontrava, che – proprio perché mangiavano con lui (a volte grazie a lui, come nel vangelo di oggi, a volte grazie a qualcun altro, così che anche lui non fosse solo soggetto, ma oggetto della cura) – gli sono diventati compagni (cum-panis).
“Compagni” è una parola che io credo vada riscoperta: è stata lasciata da parte perché usata dai comunisti o guardata male perché identifica le relazioni affettive irregolari, invece è una parola bellissima e io penso che i comunisti e gli amanti irregolari l’abbiano scelta proprio perché era bella!
Essere compagni significa condividere il pane, condividere la vita (magari anche solo un pezzetto di vita), significa fare comunione.
Non “fare la comunione” (anche), ma “fare comunione”, entrare in comunione, intrecciare l’esistenza, compromettersi, sentire che l’altro non mi è più estraneo (straniero), ma un po’ “mio”.
È questo sprizzo di umanità che il dar da mangiare, il mangiare insieme, il farsi nutrire da chi ci ama fa scintillare.
Ecco perché allora, la Chiesa, da sempre, pur in mezzo a tutte le sue contraddizioni, predica di dare da mangiare a chi ha fame, a tutti quelli che hanno fame, che siano i nostri figli o i figli di qualcun altro, perché, su questa terra, siamo davvero tutti compagni nell’avventura della vita.
Il vangelo di questa domenica ci parla di Gesù che dà da mangiare.
Certo, c’è la straordinarietà della moltiplicazione, ma l’azione centrale su cui focalizzare l’attenzione è il dare da mangiare a chi ha fame.
Non prendiamolo subito come un imperativo morale: dobbiamo anche noi dare da mangiare agli affamati!
Certo, che dobbiamo farlo, ma se lo sentiamo come un dovere ne perdiamo tutta la bellezza e iniziamo a fare tutti i distinguo tra chi se lo merita e chi no…
Concentriamoci invece, per un attimo, sul gesto in sé, sul dar da mangiare a chi ha fame, senza pensare immediatamente che “quelli che hanno fame” sono i disgraziati della terra.
Partiamo dal nostro piccolo: “quelli che hanno fame” siamo noi (più o meno tre volte al giorno). E fin da quando siamo nati, qualcuno se ne è preoccupato.
Dare da mangiare è infatti il primo e più naturale gesto della cura: una mamma, appena partorisce, porta al seno il suo bambino e continua a dargli da mangiare per tutta la vita: quante volte siamo stati nutriti da chi ci ama. È addirittura il gesto in cui gli Ebrei riconoscono la cura di Dio nei confronti del loro popolo: li ha nutriti nel deserto!
Poi – crescendo – siamo stati noi a preoccuparci della fame di qualcun altro… dei nostri compagni, dei nostri figli, dei nostri amici… e abbiamo scoperto quanto è essenziale “portare a casa il pane” e “preparare perché a nessuno manchi il necessario”.
Abbiamo anche scoperto che, non solo è essenziale, ma è anche bello, soddisfacente, gratificante.
Credo che anche Gesù sia stato contento di sfamare tutte quelle persone; lui che non aveva moglie né figli, ha pensato di estendere la sua cura a chiunque gli capitasse tra i piedi, a chiunque la storia gli mettesse sulla strada: i suoi amici, le persone che incontrava, che – proprio perché mangiavano con lui (a volte grazie a lui, come nel vangelo di oggi, a volte grazie a qualcun altro, così che anche lui non fosse solo soggetto, ma oggetto della cura) – gli sono diventati compagni (cum-panis).
“Compagni” è una parola che io credo vada riscoperta: è stata lasciata da parte perché usata dai comunisti o guardata male perché identifica le relazioni affettive irregolari, invece è una parola bellissima e io penso che i comunisti e gli amanti irregolari l’abbiano scelta proprio perché era bella!
Essere compagni significa condividere il pane, condividere la vita (magari anche solo un pezzetto di vita), significa fare comunione.
Non “fare la comunione” (anche), ma “fare comunione”, entrare in comunione, intrecciare l’esistenza, compromettersi, sentire che l’altro non mi è più estraneo (straniero), ma un po’ “mio”.
È questo sprizzo di umanità che il dar da mangiare, il mangiare insieme, il farsi nutrire da chi ci ama fa scintillare.
Ecco perché allora, la Chiesa, da sempre, pur in mezzo a tutte le sue contraddizioni, predica di dare da mangiare a chi ha fame, a tutti quelli che hanno fame, che siano i nostri figli o i figli di qualcun altro, perché, su questa terra, siamo davvero tutti compagni nell’avventura della vita.
Formidabili quegli anni
Quando dicevamo d’essere compagni
Una così lieve e fragile parola
Scritta sopra il vento della storia
Roberto Vecchioni