Il vangelo di questa domenica è costituito dalla famosissima parabola del seminatore e dei terreni: 3 che non danno frutto e 1 che lo dà con un’abbondanza impensabile.
Segue poi un dialogo tra i discepoli e Gesù riguardo al perché Egli parli alla gente in parabole e, infine, vi è la spiegazione della parabola.
Non ho mai dato molto peso a quest’ultima parte del testo forse perché un po’ allergica a tutto ciò che sa di “catechistico” o forse perché – influenzata da certa predicazione – ho sempre pensato che questa spiegazione della parabola coincidesse con l’“applicazione morale” delle parole di Gesù: quella, credo nota a tutti, per cui non basta dirsi cristiani (ascoltare la Parola), ma vivere da cristiani (applicarla nella vita).
Non che non pensi che la Parola debba essere vissuta, ma trovo inadeguata l’impostazione che vede nella Bibbia un testo che dà degli insegnamenti morali che noi poi con buona volontà e sforzi vari dobbiamo mettere in pratica.
Io credo infatti che la Bibbia non sia essenzialmente un libro di istruzioni su come comportarsi, ma l’attestazione della rivelazione di Dio: la Bibbia, e in particolare i vangeli, sono il “farsi testo” (l’attestazione) del farsi conoscere di Dio nella storia (del popolo di Israele prima, di Gesù poi, in maniera definitiva).
E, se è pur vero che la Parola di Dio oltrepassa i confini della Sacra Scrittura, è altrettanto vero che per i cristiani la “Parola” è principalmente quella attestata nella Bibbia.
Tutte queste precisazioni per dire che ciò su cui vorrei soffermarmi oggi è proprio la spiegazione della parabola del seminatore (Mt 13,18-23).
Ciò che mi ha colpito infatti è l’identificazione dei terreni con alcune tipologie umane.
Apro una parentesi: io ho sempre pensato e continuo a pensare che questi “terreni” non vadano identificati con categorie di persone, ma con tipologie umane che ciascuno di noi ha in sé. In questo senso, leggendo la parabola e la sua spiegazione non ci si dovrebbe chiedere chi delle persone che conosco è quel terreno o quell’altro, ma io che terreno sono? Oppure, dato che ciascuno di questi terreni rappresenta una parte di me: Qual è il terreno predominante in me?
Fatta questa puntualizzazione, proseguiamo.
Ciò che mi ha colpito è che – senza forse leggere con troppa attenzione – ho sempre dato per scontato che i terreni infruttuosi rappresentassero coloro che o non ascoltavano la Parola di Dio o – pur ascoltandola – non la mettevano in pratica.
In realtà, leggendo bene…
1) «Il seme seminato sulla strada» è «ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende»;
2) «Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno»;
3) «Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto».
Ciò che è individuato come problema non è – contrariamente a quanto istintivamente pensavo io – il non ascolto o la non applicazione della Parola. Tutti e tre i terreni infruttuosi sono identificati con qualcuno che ascolta la Parola, ma – ecco i problemi – non la comprende (primo terreno); non ha radici in sé e quindi, quando è perseguitato a causa della Parola (e non per qualsiasi altro motivo, ma per la Parola) viene meno, cioè la abbandona come paradigma della vita (secondo terreno); la soffoca per la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza.
La questione è perciò questa, anche per noi: Comprendiamo la Parola? Abbiamo radici in noi stessi (cioè siamo persone capaci di tener fede, anche quando si mette male, alla Parola)? Diamo spazio alla buona notizia o la soffochiamo?
Che queste siano le domande da porsi, e in particolare che la centralità sia sulla comprensione della Parola, è confermato anche dal quarto terreno, quello che porta frutto: «È colui che ascolta la Parola [come tutti gli altri] e la comprende [questo fa la differenza]».
Nella classica raccomandazione catechistica “non basta ascoltare la Parola, ma bisogna metterla in pratica” manca proprio l’essenziale: la Parola va compresa.
Buon lavoro a tutti quanti.