A mio parere la prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, è bellissima: si parla della durezza della vita, paragonata ad un deserto «grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua». E quante volte la vita ci appare proprio così…
Ma dentro a questa storia così aspra, ecco l’esperienza di qualcosa di bello, di qualcosa di buono, di qualcosa di inaspettato, di qualcosa che ci strappa un sorriso e ci fa intenerire l’anima: anche dalla roccia durissima sorga acqua!
In più, anche nel deserto c’è qualcuno che si prende cura di noi, che ci nutre.
Non bisogna necessariamente pensare subito a Dio: l’acqua che sgorga dalla roccia e il nutrimento nel deserto sono tutte quelle nostre esperienze umane, umanissime, in cui la voglia di vivere vince la desolazione, le energie vivificanti vincono le rassegnazioni mortificanti, la vita vince la morte.
E questo avviene sempre per opera di qualcun altro: una persona che ci ama, ci vuole bene, ci interpella; un altro noi stessi, cioè una parte di noi che entra in conflitto con ciò che di noi ci fa sprofondare e la obbliga a mettersi in discussione; poi, certo, anche Dio, identificato come fonte sorgiva di quell’energia vitale e amorevole che sprona a non farsi risucchiare e a non far risucchiare nessuno nei tentacoli della rinuncia alla vitalità.
Ebbene, chi fa questa esperienza di veder sgorgare l’acqua dalla roccia durissima (del suo cuore o del cuore di un altro), chi accetta di farsi nutrire, di far sì che qualcuno si prenda cura di lui, che l’amore di un altro apra una breccia nella sua interiorità desertificata, fa un’esperienza così potente che gli pare la prima volta che ciò accade in tutta la storia dell’umanità: «ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto».
Quando la medesima esperienza capita con Gesù, per sottolinearne, ancora una volta la potenza, ecco che si relativizza la manna del deserto, per dire che è ciò che si sta vivendo adesso che è unico: «Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Quello che ha vissuto il popolo di Israele (e che ha chiamato “manna”), cioè l’esperienza di essere amato, e quello che hanno vissuto i discepoli (e che hanno chiamato “corpo e sangue di Cristo”), che – di nuovo – è l’esperienza di essere amati, l’esperienza che dalla roccia durissima può sgorgare l’acqua, che da una situazione mortifera può rigermogliare la vitalità, è quello che può vivere ciascuno di noi.
Questa è la promessa di Gesù, il significato della sua presenza “in Spirito”: che per ciascuno è accessibile l’esperienza, così potente da considerarla unica nella storia, di veder sgorgare acqua dalla roccia, di vedersi nutriti nel deserto, di sapersi amati e perdonati, di saper far ri-circolare la vita anche in tempo di morte. Un’esperienza che, chi la vive, considera (a ragione) inedita nella storia, solo nostra, originale e che fa esclamare: “non è come quello che mangiarono i padri”. È meglio. Perché è la mia!
1 commento
Grazie Chiara,molto delicato e essenziale il tuo commento, anche il tema è sempre di quelli “rimbombanti”.
Rifletto su questo periodo che, per me, ha significato, soprattutto, lasciare andare tutto quello che non serve, tutto quello che fa parte di un corollario scenico della nostra vita. Un ritorno, quindi, all’essenziale. Per essere in pace con se stessi. E in questo lasciare andare includo tante relazioni che si nutrivano solo di rimbrotti, di discorsi ripetitivi, falsi problemi. Di chi e che cosa ho bisogno? Nulla. Ho tutto. Desidero ascoltare e dire poche parole. Le essenziali, appunto, ma che nascondono, nel loro intimo, tutto il “sentirsi amati” per quello che si è.
Il corpo di Cristo fa parte di tutta questo.