III Domenica di avvento (commento)

Il vangelo di questa domenica (terza di avvento) – dopo i parallelismi visti nelle settimane scorse, che riguardavano la prima venuta di Cristo e quella definitiva (I domenica di avvento) e la nascita di Gesù e l’avvio della sua missione pubblica (II domenica di avvento – solennità dell’Immacolata) – ne presenta un terzo: quello tra le aspettative e la realtà.

Il popolo di Israele, infatti, stava vivendo un’attesa («il popolo era in attesa»), cui dà voce la predicazione del Battista.

A lui, infatti, si rivolgono le folle per domandare: «Che cosa dobbiamo fare?».

Giovanni è in qualche modo identificato come colui che può dare risposte, orientare l’attesa, caricarla di aspettative.

Nel brano odierno, in particolare, egli dice alla gente: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Poi, rivolto a due categorie particolari di persone – i pubblicani e i soldati – risponde: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato», «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».

Queste indicazioni lasciano intendere che le aspettative del Battista siano orientate verso l’avvento di un messia solidale verso i bisognosi e le bisognose, accogliente verso gruppi sociali biasimati dai più (come i pubblicani e i soldati), contrario alla violenza e ai soprusi.

Altre sue prese di posizione, tuttavia, permettono di allargare il quadro circa l’idea che egli ha in testa di colui che deve venire.

Nei versetti che precedono questo testo – omessi dalla liturgia – «alle folle che andavano a farsi battezzare, Giovanni diceva: “Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque frutti degni della conversione e non cominciate a dire fra voi: ‘Abbiamo Abramo per padre!’. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Anzi, la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco».

Queste asserzioni lasciano immaginare che il messia atteso venga per una sorta di resa dei conti, animato da ira e pronto ad abbattere e distruggere chi non rientra nei suoi canoni.

Questa connotazione è peraltro confermata anche dalle ultime frasi che il Battista pronuncia nel brano di questa domenica: «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

Queste sono le aspettative di Giovanni.

Certamente, la modalità in cui le presenta (come dice il testo stesso) ha una chiara intenzione esortativa («Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo»): prefigurerebbe cioè le punizioni per fa sì che chi lo ascolta – proprio per evitarle – si comporti bene (sia solidale, accogliente, non usi violenza, non attui soprusi, ecc…).

Tuttavia, c’è da chiedersi se questa “pedagogia della paura” non finisca per contraddire l’insegnamento stesso che si vuole veicolare: ha davvero interiorizzato la solidarietà chi la attua solo perché è sotto minaccia di una punizione?

È a questo livello – a mio parere – che si gioca la distanza tra aspettative e realtà.

Gesù non farà mai leva sulla paura per convertire le persone a una vita buona. La sua scommessa sarà quella di convincere che il bene è più bello del male, ti rende più felice, ti fa scrivere una storia personale migliore.

Certo, la pedagogia della paura è apparentemente più efficace, dà risultati immediati. Tutti/e – per paura – si comportano come vorresti che si comportassero. La Chiesa stessa ha percorso questa via per secoli. Ma è una strada che non cambia i cuori.

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