Il vangelo di questa domenica ci presenta un episodio molto noto, quello che, nel vangelo di Matteo, vede come protagonista il “giovane ricco”. Quest’ultimo, nella versione di Marco, è semplicemente “un tale” che possedeva molti beni.
Credo che la vicenda sia nota a ciascuno/a di noi: costui corre (addirittura!) incontro a Gesù e gli si butta davanti in ginocchio. Vuole sapere cosa deve fare per avere in eredità la vita eterna.
Vuole, cioè, sapere come deve condurre la sua vita perché essa sia piena, perché essa – alla fine – sia una vita buona.
La prima indicazione di Gesù è molto tradizionale, quasi prudente. Non dice nulla di originale rispetto a quello che avrebbe detto un qualsiasi altro rabbi: «Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre».
La risposta – tuttavia – non soddisfa il suo interlocutore: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza».
Questo uomo pare dire a Gesù che è altro ciò che cerca: la proposta convenzionale già la conosce e – seppur l’abbia seguita – non è bastata a dargli il senso che cercava. Questa persona vuole andare al di là delle mere indicazioni della legge e individuare quel quid che fa cambiare di qualità l’esistenza.
Credo sia una situazione in cui ci siamo trovati/e anche noi: ci siamo incamminati/e sulla via del rispetto dei precetti, abbiamo condotto una vita lineare (non abbiamo ammazzato, non abbiamo rubato, non abbiamo testimoniato il falso, ci siamo presi cura dei nostri familiari…), la maggior parte – soprattutto chi ha qualche anno in più – ha vissuto anche relazioni di coppia stabili (durate magari tutta la vita) … Speriamo pochi abbiano frodato…
In ogni caso, la maggior parte delle persone ha seguito un comportamento socialmente accettabile… come l’uomo del vangelo. Eppure, anche noi, ci siamo ritrovati/e a porci la sua stessa domanda: cos’è che al di là del non fare il male, qualifica la vita come piena, buona, felice?
A questo punto, Gesù – lasciata ogni prudenza – ha un moto di affetto per questa persona (e per ciascuna persona) che non si accontenta di non fare il male («Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò») e osa andare oltre la rispostina preconfezionata per dirgli cosa veramente ha nel cuore a proposito della domanda che gli è stata posta: «Una sola cosa ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!».
Questa seconda proposta (molto più radicale) di Gesù è complessa; prevede tre passaggi:
1 – vendere quello che si ha;
2 – darlo ai poveri;
3 – seguire Gesù stesso.
Il primo passaggio implica l’abbandono delle proprie sicurezze (qui concretizzate nei beni materiali). Si tratta cioè dell’accettazione del fatto che la nostra vita non è nelle nostre mani. È precaria, fragile, sempre in discussione. Le ricchezze sono l’illusione (l’oppio) che ci fa credere che non sia così. Che la nostra vita sia sotto il nostro controllo; che qualsiasi cosa accada, noi sapremo come cavarcela; che abbiamo “le spalle coperte”. Non è vero! Spogliarsi di questa illusione è il primo passo, perché ci fa passare dalla logica del (supposto) dominio sulla nostra vita, a quella dell’affidamento a qualcun altro, a qualcun’altra, a qualcun Altro/a.
Il secondo è dare le nostre (presunte) certezze / ricchezze alle persone povere, perché nella loro costituzionale incertezza abbiano un po’ di respiro e… standogli un po’ accanto ci insegnino cosa vuol dire “non avere in mano la propria vita”, ma “affidarla continuamente” …
L’ultimo passaggio è quello di seguire Gesù e lo stile di vita che ha proposto lungo tutto il cammino della sua esistenza: uno stile che va ben al di là rispetto alla legge mosaica e ancor più rispetto alla sterile osservanza di precetti. Si tratta di uno stile che parte dal riconoscimento di essere deboli e non forti, bisognosi/e e non tutti/e d’un pezzo, figli/figlie e non già arrivati/e. È uno stile che si fonda sull’amore, donato certo, ma innanzitutto ricevuto, imparato, contagiato.