Questo epilogo è l’apice di tutto il capitolo VI di Giovanni, che la liturgia domenicale ci ha proposto in questo tempo estivo. La Parola ci ha condotto, in un cammino a spirale, sempre più in profondità: dalla folla, che appare all’inizio, prima affascinata e poi delusa da Gesù, ai Giudei che discutono con lui nella sinagoga di Cafarnao, ai discepoli, ai dodici, fino a Pietro, che rappresenta ciascuno di noi, da soli, con il Signore Gesù, mentre ci domanda un’adesione personale, sempre fragile e inferma, ma definitiva, a lui, nella sua verità sconvolgente… Bisogna rileggere come scritto per noi, per la nostra chiesa, per la nostra comunità o famiglia, nel nostro percorso di adesso… questo discorso di Gesù, iniziato dopo la strepitosa moltiplicazione dei cinque pani e due pesciolini, quando aveva già perso per strada tanta gente, che non capiva il rifiuto di divenire un re politico. Quanti dispersi lungo il cammino al suo seguito, per l’esperienza tragica quanto imprevista, che lui, solidale nel nostro cammino, non risolve i nostri problemi umani, ci lascia nel dolore e nell’impotenza a dominarlo! E ci “propone”, invece, un tale “globale stravolgimento di senso”, rispetto alle attese umane della fame e sete di vita, da scandalizzare l’uditorio – e anche noi, se non avessimo banalizzato e anestetizzato ormai la capacità di ascolto – di fronte ad affermazioni di un linguaggio volutamente duro e repellente e insieme di una concretezza e chiarezza incontrovertibili, mai sentite in bocca a nessuno al mondo!”… Io sono il pane disceso dal cielo. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno…. questo pane non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno. I discepoli stessi vanno in crisi. Sono proprio quelli che erano andati per le strade dei paesi lì intorno, ad annunciare nel suo nome che il Regno di Dio era in arrivo. Sono quelli che avevano da lui imparato ad annunciare la pace … a guarire i malati e a perdonare, a scacciare ogni demone oppressore, rischiando di essere respinti dalla gente. Ed erano poi stati riaccolti da lui, dopo la missione, e consolati! Adesso l’incredulità e la “mormorazione” s’insinuano nel loro cuore, insidiano la loro fede – la mormorazione che nella Bibbia mina dall’interno ogni impresa “divina” sull’uomo, dal paradiso terrestre alla liberazione dall’Egitto, e adesso contagia anche gli “impresari” più coinvolti e più convinti della sua azione, come del resto era entrata nel cuore di Mosè e di Elia, e della processione infinita di profeti e di credenti che hanno speso la vita per seguire il Signore. Adesso è presente fin dentro il gruppo degli apostoli scelti personalmente da lui stesso… E Gesù ne è cosciente, … e ci riporta tutti sulla soglia della conversione radicale, dove l’esperienza dura della diversità tra noi e lui, è così abissale, ma la sua insistenza talmente intensa, che rimane una soluzione sola: rinunciare per sempre ad ogni via di fuga… E lasciare che la carne (la nostra cosa più nostra!) pianga il destino tragico segnato su di lei dal Signore: “non giova a nulla”!
“… forse volete andarvene anche voi?”. Viviamo anche noi, oggi, infatti, una situazione simile alla condizione socio religiosa dei tempi di Gesù. Come capita nei momenti cruciali del crollo di una sintesi culturale, sotto la pressione di nuove condizioni storiche. Finché Gesù poteva essere inteso come un taumaturgo e profeta, liberatore dalla fame e forse dall’oppressione romana… comunque il promotore di una nuova affascinante proposta di società, le folle lo seguono per farlo re. Ma appena Gesù prova a spiegare cosa comporta il suo vangelo e la sua vita nella dinamica delle nostre attese ed aneliti vitali (io sono il pane disceso dal cielo – perché chi ne mangia non muoia) e ripropone che questa sua identità interiore comporta una consegna totale della vita per la salvezza dell’umanità (il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo!), appena interpreta e accoglie la sua morte come “essere sacrificato e mangiato” dagli uomini (se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita), ecco che tanti irreparabilmente lo abbandonano… Allora, ai rimasti, rilancia la domanda inesorabile: forse volete andarvene anche voi? … Perché nessuno rimanga per devozione o scrupolo o superficialità – senza un rapporto vitale di affidamento a lui. Unica motivazione per rimanere!
Anche al tempo di Giosuè le tribù stanno entrando in una nuova fase socioculturale nella quale bisogna di nuovo ricollocarsi nella propria vita e “scegliere” la propria fede. Il grande pericolo è l’adesione superficiale di carattere socio-religioso tradizionale, da cui ripetutamente Giosuè mette in guardia il popolo. Aveva prima elaborato i motivi “storici” della propria scelta: “Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile… per questo è il nostro Dio. Ma ribadisce: «Voi non potete servire il Signore, perché è un Dio santo, è un Dio geloso; egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati. Se abbandonerete il Signore e servirete dèi stranieri, egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi annienterà». Il popolo rispose a Giosuè: «No! Noi serviremo il Signore». Giosuè disse allora al popolo: «Voi siete testimoni contro voi stessi, che vi siete scelti il Signore per servirlo!». Risposero: «Siamo testimoni!» (19ss – non compresi nella liturgia). Questa è la profezia paradigmatica che denuncia la nostra incapacità di adesione al Signore, la ricerca ossessiva in tutta la storia della chiesa (e nostra personale) di valori sacrosanti e ragionevoli, a noi più appetibili… che non siano questo suo “pane di vita” indigeribile, cioè assimilare l’avventura della sua morte patita per darsi da mangiare a noi! Le tensioni interne alla chiesa, le opposte proposte di soluzioni, il rimpianto di una comunione omogenea facile, che invece è sempre lacerata proprio su ciò che è più importante, segnano solo i sintomi di disorientamento di fronte al sovvertimento del clima culturale in occidente, nel passaggio da una cristianità rurale ad un contesto secolarizzato urbano, da una temperie culturale socialmente integrata ad una globalizzazione pluriculturale sconvolgente, che rischia di relativizzare e appiattire ogni credo ed ogni valore, ma rimette il credente e la sua chiesa di fronte al vero nudo pane di vita. Ormai come scriveva il Papa qualche mese fa, in un momento drammatico per lui: l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo, costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa (Lett ai vescovi 10 marzo 2009). Ma noi non ne siamo capaci e ci perdiamo in brontolamenti che oscurano il vero scandalo … dell’impotenza della croce di fronte ai problemi del mondo.
… la crisi galilaica – il dramma costante della chiesa e del credente. È vera fede, quella che va in crisi, e poi crolla? Si tratta di autentica fede personale o è consenso al gruppo sociale di appartenenza, è connivenza atematica con la paura di solitudine e morte, che ci morde dentro, con vaghe pretese di eternità? Per cui, appena cambia il contesto socioculturale e la propria collocazione in esso, tutto si sfalda? Forse è fede! ‑ nelle sue uniche modalità possibili, cioè nei passi di maturazione precari e provvisori, di adesione o tensione sinceri quanto ambigui, verso il Signore, così come sopravvive nel guazzabuglio delle diverse emozioni, sentimenti, ideologie, aneliti che fermentano nel cuore. La storia dell’umanizzazione ha come principio creativo e conoscitivo la ragione… che, pur con tutti i suoi problemi e i suoi dubbi, non ha altro riferimento alternativo che sé! La storia della salvezza ha invece come principio fondativo la grazia (l’attrazione del Padre!) e come strumento conoscitivo la fede, che secondo Gesù è il rapporto con lui! Ogni pur legittimo tentativo di tradurre in termini razionali la fede e la sua potenza operativa di speranza e di amore, si scontra sempre contro una refrattarietà irriducibile: la fede spiega se stessa (come l’amore) in una condizione di impotenza irrimediabile – dove il desiderio e l’implorazione pesano più che ogni (insignificante) realizzazione. Non c’è argomento di ragione che la smentisca, ma neanche che la deduca e la sospinga necessariamente… Qual è il punto discriminante della fede? Il crinale sul quale (come Giosuè ai suoi) Gesù domanda di scegliere se stare da una parte o dall’altra? Voltargli le spalle o no? Felpatamente o traumaticamente? A questa domanda (piena di trepidazione, ma non di ricatto o minaccia) bisogna finalmente rispondere da adulti, una volta o l’altra, andandosene … ai fatti propri ‑ o gemendo: tu solo hai parole di vita eterna! Finché Gesù cita i profeti, guarisce i malati, risana gli indemoniati… moltiplica il pane per la folla… ci riempie la vita, trova ampio consenso attorno a sé, anche se guardato con sospetto dai capi. Quando comincia a parlare della sua persona proiettata verso una morte ignominiosa, lucidamente programmata dal potere che si sente minacciato dalle sue proposte di amore e libertà eversive, se pure “non di questo mondo”, quando svuota la vita delle sue pur fallaci fascinazioni, la gente scuote la testa…. Con il suo rifiuto di condividere il successo e la sua rinuncia alla competizione nei valori umani pur necessari, se ne vanno tutti! A lui non rimane che farsi mangiare. A noi rimane la nostra povertà e fame di senso… e ci aggrappiamo, come Pietro con i suoi pochi amici, alle sue parole che promettono vita eterna. Incapaci però, come gli altri, di essere fedeli, e pronti purtroppo, nel momento della prova, a rinnegarlo. Ma ricercarlo ancora… sempre!
… tu solo hai parole di vita eterna. E cos’è la vita eterna? È la risposta “vera” al nostro bisogno di vita, cioè di amore, come senso del proprio essere. La verità dell’amore è che vale più di ogni altra cosa perseguibile dall’uomo sulla terra. Ha dentro di sé il bisogno di futuro. Esige la propria continuità e non tollera di finire… Nessuna previsione o programmazione razionale può darci questo! Anzi è ragionevole “disperare” che ci sia altro … oltre il cimitero. “Le parole di vita eterna” sono le parole che riguardano direttamente il senso del nostro destino. Non è la “vita dell’al di là”, ma una “vita dell’al di qua che diventa totale” (ne sono segno compiuto il Risorto e l’Assunta). Che implica dunque la vittoria sulla morte, (attraversandola), ma comincia già ora. Passa attraverso la libertà che è chiamata a donarsi, come lievito e sale della carne, che da sola morirebbe senza traccia: “è lo Spirito che dá la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita”. La carne rimane il nostro modo attuale, fragile e caduco, di esistere personale, sociale, culturale, dentro la quale lo “spirito” è libertà, come in Gesù, cioè dono cosciente di sé ‑ per rinnovare in sua memoria quello che lui ha fatto per noi. La fede eucaristica (tu solo hai parole di vita eterna!) è l’assunzione di questa responsabilità della storia degli uomini, di continuare la sua opera: “E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39).