Nonostante da ormai due settimane sia ricominciato il tempo ordinario, non riusciamo a tornare alla lettura “ordinaria” della vita di Gesù, perché anche questa domenica la liturgia ci propone un appuntamento “extra-ordinario”, la celebrazione del corpus Domini.
La festa è molto antica, è stata istituita nel 1247 in Belgio ed estesa in tutta la chiesa nel 1264. Lo scopo era quello di rinvigorire la fede dei cristiani nella presenza reale di Cristo nell’eucaristia.
A dir la verità, il corpo di Cristo fa riferimento ad almeno tre realtà: il pane che diventa corpo nella celebrazione della messa, la Chiesa (che è corpo di Cristo) e il corpo in carne e ossa di Gesù di Nazareth.
Oggi la Chiesa (almeno da noi) fa fatica a pensarsi come “corpo di Cristo”… In parte perché non ha più il vigore e le dimensioni per definirsi “corpo”, in parte perché le innumerevoli vicissitudini che l’hanno attraversata nel corso della sua storia l’hanno allontanata da quel messaggio originario che la faceva “di Cristo”.
In questo orizzonte di perdita di pregnanza e vitalità, anche la questione della presenza reale di Cristo nel pane eucaristico appare insignificante…
Più che corpo di Cristo, le comunità cristiane (striminzite e così lontane da apparire a volte espressioni di fedi diverse) si sentono corpicini fragili e precari. I segni del pane e del vino non sono venuti meno, ma più che al trionfalismo di cui sono stati oggetto in passato, paiono oggi rimandare a quella essenzialità che è tipica di chi vive esistenze incerte e periture.
A ben guardare, tuttavia, questo incessante spogliamento delle vestigia della Chiesa e questa riduzione essenzialistica della celebrazione della memoria dell’ultima cena di Gesù, lasciano emergere una maggiore autenticità, cioè una maggiore corrispondenza con la realtà da cui tutto è partito: il corpo in carne e ossa di Gesù di Nazareth.
Un corpo che è stato fragile e precario, che ha vissuto nell’incertezza e che è perito, che ha incarnato un’esistenza spogliata di fronzoli e si è rivelata nella sua essenzialità.
È di questo corpo che, allora, vorrei parlare oggi.
Perché quando io sento il nome della festa di questa domenica (“santissimo corpo e sangue di Gesù”) non posso non pensare che parole del genere possano essere state immaginate solo da chi quel suo corpo (vero) lo ha amato a tal punto da considerarlo sacro.
E mi sono chiesta: quali corpi noi amiamo a tal punto da considerarli sacri?
Quelli dei nostri bimbi, delle nostre bimbe; quelli dei nostri amanti, delle nostre amanti; quelli dei nostri malati, delle nostre malate; quelli dei nostri morti, delle nostre morte.
E a pensarci bene Gesù è stato tutto questo (bambino, amante, sofferente nella carne, morto) e ogni volta c’era sempre qualcuno/a che ha trattato il suo corpo vero come sacro: la sua mamma, che l’ha accarezzato, nutrito, lavato… le sue amiche, che gli hanno voluto così bene che gli asciugavano i piedi coi capelli, gli abbracciavano le gambe, gli versano vasetti di profumo sul capo… sempre loro, madri, amiche, sorelle, figlie, discepole, che sotto alla croce si straziavano vedendolo straziato… e che dopo la sua morte sono andate per pulire e accarezzare per l’ultima volta quel corpo…
Credo che sia da qui che sia necessario ripartire. Non per tornare alle vestigia, ai trionfalismi, alle sicurezze e al vigore spocchioso di una volta, ma per rassicurarci che la Chiesa striminzita, precaria, fragile, essenziale è molto più corpo di Cristo oggi che in passato.