Il vangelo di questa domenica è tratto dal capitolo 23 di Matteo. Come già ormai da qualche settimana, siamo nelle fasi finali della vita di Gesù.
Rispetto ai testi delle domeniche precedenti, tuttavia, in questo caso gli interlocutori di Gesù non sono le autorità religiose ebraiche, ma la folla, i discepoli e le discepole.
È a essi/e che si rivolge per parlare degli scribi e dei farisei, dei quali dice cose molto dure: «Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente» …
Come abbiamo già avuto modo di dire, al di là della contestualizzazione di queste parole nella polemica finale che Gesù ha avuto con le élite d’Israele, ciò che a noi interessa maggiormente è evincere – da quanto Egli dice – il suo punto di vista su alcune dinamiche “religiose” che rischiano di ripetersi anche all’interno della comunità cristiana.
Infatti, il brano prosegue con un’indicazione per i discepoli e le discepole: «Voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».
Gesù, criticando la crème della religiosità ebraica e – di seguito – proponendo un modello alternativo di vivere le dinamiche comunitarie, sta mostrando chiaramente qual è la sua idea dei rapporti che dovrebbero intercorrere tra persone unite dalla stessa fede.
Non certo relazioni di superiorità-inferiorità, ma piuttosto di fraternità.
Immagino che un’obiezione possa subito emergere: non tutti/e all’interno della comunità credente possono essere equiparati e uniformati. Ognuno/a avrà le sue competenze specifiche, livelli culturali diversi, profondità spirituali variegate, ecc… E questo è indubbiamente vero.
Però, io credo che se il riconoscimento di una non uniformità diventa la scusa per rifondare una gerarchia, per cui qualcuno è maestro, qualcuno è padre, qualcuno è guida e gli altri / le altre sono discepoli/e, figli/e, persone che hanno bisogno di essere guidate, si perde il senso della proposta di Gesù.
L’entrare a far parte della sua comunità non è equiparabile all’ingresso in un club, in un circolo, o in una tradizione religiosa dove ci sono graduatorie in base all’anzianità, all’antichità dell’appartenenza, ai ruoli o al ceto sociale.
Si entra a far parte della comunità dei credenti perché raggiunti da un annuncio che provoca una conversione, un cambio di mentalità su chi è Dio, chi sono gli esseri umani, quali possono essere le loro relazioni…
La fraternità non è, perciò, imposta per legge da Gesù, ma è il naturale frutto del riconoscersi tutti/e figli/e e dunque fratelli/sorelle.
Sicuramente questo poi si declinerà in maniera personale per ciascuno/a e ci si potrà organizzare in base alle caratteristiche specifiche di ciascuno/a e, tuttavia, questo articolarsi in compiti e attività diverse non potrà mai tradire la verità del nucleo incandescente da cui tutto è scaturito.
Le domande per la Chiesa di cui facciamo parte sono, dunque, due: chi vi appartiene, lo fa perché toccato da un annuncio che lo ha convertito/a? E l’organizzazione che si è data salvaguarda l’uguaglianza originaria dei suoi membri?