Il vangelo di questa domenica ci presenta l’immagine di Gesù come porta.
Gesù si autodefinisce proprio così: «Io sono la porta delle pecore».
Proprio quando tutti si aspettano che lui dica di essere il pastore (cosa che peraltro dirà nel versetto immediatamente successivo a quello con cui finisce il brano di oggi), lui scarta di lato e dice di essere la porta.
Il discorso precedente, infatti, sembrava costruito apposta per arrivare a dire “Io sono il pastore”: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore» …
Proprio colui che entra dalla porta, cioè il pastore, è riconosciuto (dal guardiano, prima, che gli apre e dalle pecore, poi, che lo seguono perché conoscono la sua voce) …
E, invece, ecco la sorpresa: ai discepoli che non hanno capito la similitudine non risponde “In verità, in verità io vi dico: io sono il pastore”, ma «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore».
Cosa avrà voluto dire Gesù, introducendo questa immagine?
Non può essere che voglia mettere in luce che il pastore sia qualcun altro (il Padre? I discepoli?), perché, al versetto immediatamente successivo, dirà appunto «Io sono il buon pastore».
Perché, allora, l’inserzione dell’immagine della porta?
Forse perché per provare a dirsi, a farsi conoscere, a rivelarsi, un’unica immagine gli sembrava riduttiva, limitante.
In effetti, anche noi, se provassimo a spiegare chi siamo attraverso delle immagini, ne sceglieremmo forse più d’una.
C’è una complessità in atto nell’identità di ciascuno/a di noi… c’è anche in Gesù.
Soffermiamoci, dunque, sull’immagine che il vangelo ci propone, senza sgattaiolare in avanti e pensare al pastore: la porta … Cos’è una porta?
Una porta, come specificato da Gesù stesso, è un passaggio: serve per far passare da un posto all’altro.
Credo che sia proprio per questo che la Chiesa ci fa leggere questo testo nel tempo di Pasqua (parola che – in ebraico – significa proprio “passaggio”).
Eppure il brano di questa domenica non è tratto dai vangeli della risurrezione: quando Gesù pronuncia queste parole è ancora vivo.
Certo – mi direte – ma quando hanno redatto il testo evangelico si sapeva già che Gesù era risorto e, dunque, può essere che il brano si riferisca (come la Pasqua) al passaggio tra la vita terrena e la vita dopo la morte. In questo senso, Gesù sarebbe la porta, colui che ci ha salvato dalla morte e che ci farà passare alla vita eterna.
Eppure, per quanto nel testo si dica «se uno entra attraverso di me, sarà salvato», immediatamente dopo c’è scritto: «Entrerà e uscirà e troverà pascolo» … non “uscirà” (da questa vita) e “troverà pascolo” (la vita eterna); e nemmeno “entrerà” (nella vita eterna) e “troverà pascolo” (la beatitudine); ma «Entrerà e uscirà e troverà pascolo».
La “porta” Gesù è una porta che si attraversa in entrata e in uscita.
Non credo, quindi, che (seppur legittima) la lettura sulla vita eterna dopo la morte sia l’unica interpretazione possibile.
Anzi, ritengo che Gesù sia da “attraversare” non una volta sola nella vita (quando si muore), ma tantissime volte (quando si è ancora vivi).
Mi sembra, cioè, che l’immagine suggerisca la necessità di avere a che fare con lui (con la sua storia, con la sua identità) quotidianamente (come avviene nelle relazioni fondanti della vita, come avviene per le pecore in un ovile vero).
È proprio questo attraversarsi a vicenda che costruisce la relazione e, in essa, quella familiarità che permette di riconoscere la voce, di fidarsi, di affidarsi (anche in punto di morte).
Ma – intanto che siamo vivi/e – l’invito di Gesù è di attraversare la sua vita e permettergli attraversare la nostra, per costruire insieme un’esistenza che sia “pascolo” (e non deserto…).
È un invito, non un obbligo.
Ma io lo trovo promettente.