Le tre parabole della misericordia, contenute nel vangelo di questa domenica, ci dicono molto su chi è Dio secondo Gesù.
Dato che, però, molto si è detto e scritto in proposito, oggi vorrei provare a focalizzare l’attenzione su un altro aspetto.
Proprio in questi giorni, infatti, tenendo un corso biblico qui nella fraternità in cui vivo, è emerso come il senso delle parabole (non solo di queste, ma in generale) non sia mai immediatamente morale: le storie che Gesù si inventava non volevano primariamente dare indicazioni comportamentali (fai questo / non fare quello), ma avevano uno scopo rivelativo.
Sono un modo che Gesù usava per far conoscere (rivelare, appunto) chi è Dio (aspetto teologico), chi è lui stesso (aspetto cristologico), chi è l’uomo (aspetto antropologico).
È proprio su quest’ultimo che oggi vorrei soffermarmi.
Quando – durante il corso – abbiamo fatto un laboratorio sulle parabole e io ho chiesto di andare a ricercare questi aspetti nei vari racconti che avevo fornito, l’aspetto antropologico è stato per lo più associato dai gruppi a quello etico: l’essere umano deve pentirsi, non mettersi al primo posto, far fruttare i suoi talenti, comportarsi da buon samaritano, ecc…
In realtà, però, non era questo che chiedevo: non volevo l’indicazione morale, ma l’individuazione di “cosa dice questo racconto di chi è l’essere umano”.
Nelle tre parabole del cap. 15 di Luca, l’essere umano è rappresentato dalla pecora, dalla moneta e da ciascuno dei 2 figli.
La prima cosa da fare è guardare a ciò che fanno / subiscono:
La pecora è persa, ritrovata e messa sulle spalle; la moneta è persa e ritrovata.
Il figlio minore pretende, parte, sperpera, si trova nel bisogno, prova ad arrangiarsi, ritorna in sé, torna da suo padre, è abbracciato e baciato, recita le scuse che si era preparato, è rivestito, fa festa.
Il figlio maggiore si insospettisce e chiede cosa stia succedendo, si indigna, è supplicato, recrimina, disprezza il fratello.
In corsivo i verbi passivi, cioè le azioni “subite” le quali, però, dicono più chi è Dio e non tanto chi siamo noi… Sono i verbi attivi che ci caratterizzano e, a prima vista, il quadro che ne esce non è molto lusinghiero.
Eppure è realistico: ciascuno/a di noi può rivedersi in quelle azioni e reazioni.
E non lo dico in senso colpevolizzante, del tipo “Guardate quanto siamo miseri, cattivi, meschini, ecc…”; ma come onesta presa di coscienza del fatto che tutti/e abbiamo attraversato (e continuamente attraversiamo) la ribellione, il tentativo di provarci da soli, di arrangiarci quando le cose vanno male, la presa di coscienza che da soli non possiamo andare avanti, i ritorni, i discorsi preparati… fino ad arrivare alla festa, quando “guadagniamo” (un pezzettino alla volta) un po’ di adultità.
Tutti/e, poi, sappiamo cosa voglia dire non riuscire a gioire della festa di qualcun altro/a, tutti/e noi ci siamo rimasti/e male per il bene altrui percepito come un’ingiustizia nei nostri confronti, tutti/e abbiamo recriminato, disprezzato…
Ripeto – non lo dico – per sottolineare la necessità della conversione e l’urgenza del cambiamento: lo dico per mostrare quanto davvero il vangelo sia in grado di rivelare noi a noi stessi (oltre che Dio agli umani).
Gesù non aveva una visione edulcorata delle persone, sapeva benissimo come “funzioniamo”: l’istinto di sopravvivenza, il bisogno di essere i/le migliori, la necessità di screditare gli altri per far emergere noi stessi, ecc… e tutto questo non gli ha fatto schifo, non lo ha fatto desistere dal tentativo di entrare in relazione con noi, anzi… è alle persone così come sono che si rivolge.
Ecco perché si rivolge anche a me.