In questa quarta domenica di Quaresima, la Chiesa ci propone la cosiddetta parabola del padre misericordioso, più conosciuta come quella del figliol prodigo.
È interessante guardare a questo racconto ponendosi come uno spettatore che osserva lo svolgersi della scena con in testa una domanda fondamentale: A partire da ciò che fanno e dicono i vari personaggi, qual è l’idea del padre che hanno in testa? Il primo figlio che immagine ha di suo padre? E il secondo? E il padre stesso, come si propone sulla scena? Cosa dice di sé, agendo e parlando?
Le domande evidentemente sono fondamentali, perché in ultima analisi è la stessa questione che il lettore stesso è chiamato a porsi: Io che idea ho di questo padre? E fuor di metafora: Qual è la mia idea di Dio? Senza dimenticare che la parabola è raccontata in un particolare contesto, quello in cui vedendo Gesù circondato da pubblicani e peccatori, «i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”».
Ma andiamo con ordine. In primo luogo guardiamo all’idea del padre che ha il figlio più giovane.
Egli, dopo essersene andato ed essere caduto in disgrazia, ragiona più o meno in questo modo: suo padre non potrà certo riaccoglierlo come un figlio, ma se non altro lì a casa si può mangiare; suo padre – egli pensa – avrà perciò il buon cuore di accettarlo come suo servo. Ragiona cioè nella maniera che pare più logica anche a tutti noi, partendo da un presupposto solitamente assai condiviso, quello della retribuzione/reciprocità. Il padre punirà i suoi misfatti (non lo può riaccogliere come figlio), ma potrebbe riaccoglierlo come servo, in nome dell’antico affetto o per lo meno della pietà a cui spera di muoverlo. In qualche modo cerca da lui il dovuto, o poco più del dovuto.
Proprio in questa logica va rintracciata la prima identificazione cui la parabola di Gesù chiama colui che la ascolta: precisamente questo modo di ragionare del figlio, questo suo modo di pensare il padre, coincide col nostro modo di pensare Dio. Non un Dio cattivo, anzi un Dio che come servi ci riaccoglierebbe mosso a pietà dalla nostra miseria. Diremmo: un Dio giusto. Che dà il giusto. A ognuno il suo: anche il perdono ai pentiti.
Ma proprio qui la parabola fa scattare il suo meccanismo, creando uno stacco sorprendente, quasi incomprensibile: al lettore che segue annuendo il discorso che il figlio si fa tra sé e sé, si presenta una scena non prevista: il padre «quando era ancora lontano, lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Non lascia nemmeno finir di parlare il figlio, che tentava di ripetere il pensiero che aveva formulato nel suo cuore («Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te…»), che gli corre incontro… «e cominciarono a far festa».
La cosa più interessante, più imprevista, quella che dovrebbe far sobbalzare l’ascoltatore è che – contrariamente all’immagine del padre che il figlio aveva in testa – questi non aspetta il suo pentimento e – solo a posteriori – gli concede di essergli servo, ma piuttosto preventivamente lo perdona e lo riaccoglie come figlio.
Il punto critico è perciò quello per cui lo sguardo con cui il figlio guardava al padre era sbagliato, falsificava la realtà, non era conforme all’identità del padre. Più precisamente ancora: lo sguardo con cui il figlio si sentiva guardato dal padre non corrispondeva alla realtà, allo sguardo con cui il padre lo guardava.
E questo è il punto interessante per gli ascoltatori, dunque anche per noi: Qual è lo sguardo con cui guardiamo a Dio? È conforme alla realtà (di Dio)? Alla sua identità? E soprattutto, come è lo sguardo con cui ci sentiamo guardati da lui? È in sintonia con questa parabola? Con questa scena in cui emerge, per esempio, che – ben al di là del luogo comune per cui Dio ci perdona se ci pentiamo – in realtà egli ci perdona a prescindere? Cioè continua a custodire la nostra identità di figli e a guardarci così, anche quando noi roviniamo o sfuochiamo questo nostro volto? È in sintonia con il resto del vangelo? Con lo sguardo con cui è necessario che Gesù guardi ai poveri, agli affamati, agli afflitti, ai perseguitati… agli incompiuti della storia, per chiamarli beati (Lc 6,20-23)? O allo sguardo che deve avere per proclamare e vivere come unica strada per la felicità l’amore ai nemici (Lc 6,27-38)? O la disposizione che deve avere perché a lui si avvicinassero «tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo»?
Perché questo è il Dio che Gesù rivela nel suo vangelo, esattamente come così è la vera identità del padre che emerge dalla parabola, al di là dell’idea dell’uno e dell’altro figlio…
…A proposito dell’altro figlio… il maggiore, quello che entra sulla scena solo nel finale… Anche la sua idea di padre non si scosta molto da quella del fratello: anche lui ha in mente un padre giusto, che dà il giusto, il dovuto, incapace del contrario, cioè del gratuito, delle cose gratis, dell’amore a perdere. Ma proprio qui sta l’inganno… Nel tentativo, suo e nostro (e dei farisei che occasionano la parabola, tanto simili a questo secondo figlio…), di bilanciare la vita sul dovuto: su ciò che mi è chiesto e ciò che è giusto io riceva… sul reciproco scambio, sul do ut des, sul tanto mi dà tanto, come se il dovuto potesse appagare il desiderio di vita dell’uomo…
Il p(P)adre è altro rispetto a questo calcolatore e bilanciatore, sembra dire la parabola. Dio è altro, sembra dire il vangelo. La felicità è altrove, sembra dire Gesù: solo la verità dello sguardo con cui Dio guarda all’uomo senza dimenticarsi mai che è suo figlio, e solo l’acquisizione da parte dell’uomo di questo sguardo che vede l’altro senza mai dimenticarsi che è suo fratello, è vita!