Quest’anno la festa di tutti i santi, 1 novembre, cade di domenica e così la liturgia della 31° domenica del tempo ordinario viene sostituita da quella di questa solennità.
Il testo di vangelo è quello delle beatitudini secondo l’evangelista Matteo.
Innanzitutto mi pare utile ricordare chi il vangelo definisce “beati”:
- i poveri in spirito
- gli afflitti
- i miti
- quelli che hanno fame e sete della giustizia
- i misericordiosi
- i puri di cuore
- gli operatori di pace
- i perseguitati per causa della giustizia
+ «voi, quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia».
Sono tutti termini che conosciamo – forse a memoria – ma il cui significato non sempre ci appare evidente. Necessitano di una spiegazione – a mio parere – in particolare le espressioni “poveri in spirito” e “puri di cuore”, perché tradizionalmente un po’ fumosi o spesso travisati.
La locuzione “poveri in spirito” non è un restringimento della categoria “poveri”, per cui non sarebbero beati i poveri in generale, ma solo i poveri in spirito; anzi è un ampliamento: non sono beati solo i poveri (materiali) ma anche chi lo è “in spirito”, cioè chi vive in uno spirito di povertà.
“I puri di cuore” invece non sono coloro che vivono nella purezza, sessualmente intesa (prospettiva, questa, lontana dalla sensibilità ebraica, che vedeva nella generazione dei figli una benedizione di Dio), ma coloro che hanno un cuore puro, un cuore purificato dall’innato egoismo che l’istinto di sopravvivenza ha iscritto in ogni essere vivente.
Fatti questi chiarimenti, serve però un’ulteriore precisazione.
Ad ogni tipologia di “beati” segue infatti un “perché”, una motivazione, che più che essere una causa della dichiarazione di beatitudine (beato te perché hai trovato un tesoro), è una conseguenza (beato te perché ti succederà qualcosa di bello).
Sembrerebbe dunque che un determinato modo di essere (povero in spirito, afflitto, mite, affamato e assetato di giustizia, misericordioso, puro di cuore, operatore di pace, perseguitato per causa della giustizia – del vangelo) causi una conseguenza positiva che fa sì che la persona che incarna quel modo di essere possa essere definita “beata”.
Il modo di essere sarebbe dunque causa di una beatitudine, perché quel modo di essere provoca delle conseguenze positive (avere il regno dei cieli, essere consolati, ereditare la terra, essere saziati, trovare misericordia, vedere Dio, essere chiamati figli di Dio, avere una grande ricompensa nei cieli).
In questo senso i modi di essere elencati nella prima parte della beatitudine farebbero conseguire una sorta di “premio” nel futuro, nei cieli, nell’aldilà.
Il rischio di questa impostazione è però quella di suggerire tali modi di essere come buoni, non in se stessi, ma in vista della ricompensa che provocano.
Verrebbe, cioè, da chiedersi: se non ci fosse il “premio”, sarebbe comunque giusto incarnare quei modi di essere?
Il senso del vangelo – a mio parere – si gioca tutto qui.
Perché se si risponde “No, se non ci fosse una ricompensa, non varrebbe la pena di vivere in quel modo”, non si è compresa la novità del vangelo: tutte le religioni e le pedagogie (cioè i modi di educare i piccoli o le società) si sono sempre basate sulla logica premio-punizione. Quella di Gesù dunque non sarebbe affatto una novità.
Se invece si risponde “Sì, perché quei modi di essere corrispondono all’incarnazione di una vita pienamente umana, degna di essere vissuta, libera dalla logica del compenso e votata alla logica del giusto, del bene, del costruire un mondo migliore”, allora si è entrati nella mentalità di Gesù.
Le promesse della seconda parte delle beatitudini (quelle che prima abbiamo chiamato “ricompense”) in realtà non sono altro che il modo che Gesù usa per far capire che i modi di essere nominati nella prima parte della beatitudine sono il modo giusto di stare al mondo.
Anche quelli che appaiono strani (essere afflitti, essere perseguitati), quelli che – seguendo la logica della convenienza – ci verrebbe da rifuggire, perché troppo compromettenti, troppo impegnativi, troppo difficili da sostenere.
Quel modo di vivere (tratteggiato dai modi di essere delle beatitudini) è il modo di vivere che Gesù propone per la costruzione del suo regno, di un mondo migliore. Gesù – potremmo dire – è in cerca di persone disposte a vivere in quel modo, in nome del bene (dello star bene, dello star meglio) di tutti.
Chi vuole seguirlo, deve sapere che in gioco non c’è l’obbligo di partecipare alla messa una volta alla settimana, di avere ogni tanto buoni sentimenti per i disgraziati della terra o di dare qualche moneta fuori dal supermercato. In gioco c’è la scelta radicale sul proprio modo di essere, sul chi vogliamo essere e sul modo di impegnare il tempo che ci è dato su questa terra.